My name is Bond, social impact Bond – n.15 ottobre 2014

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di Carmen Guarino (Rete della conoscenza)

Dulcis in fundo, nel Piano Scuola, c’è la finanziarizzazione della scuola pubblica. Il piano del governo sui finanziamenti è questo: si tagliano i fondi ad università e ricerca per fare il gioco delle tre carte e non sbloccare risorse pubbliche, intanto si punta tutto su quelle private. Dopo “school bonus”, “school guarantee” e “crowdfunding” (leggesi, incentivi agli investimenti delle aziende e liberalizzazione dei contributi volontari delle famiglie) a pagina 126 del documento presentato dal governo, compare un canale di finanziamento privato “innovativo”. Viene citato en passant, ma ha una centralità in tutta la politica economica del governo. Si tratta dei Social Impact Bonds (SIB), chiamati anche Pay for Success Bond (Psb): sono strumenti finanziari promossi dal pubblico per reperire fondi privati per servizi sociali e welfare.

A differenza delle obbligazioni finanziarie (bond) tradizionali, il tasso d’interesse in questo caso non è fisso ma vincolato al raggiungimento di un obiettivo sociale, come la riduzione della dispersione scolastica o l’innalzamento del livello di competenze in una data area disciplinare. Il modello SIB prevede un patto tra l’ente pubblico, gli investitori (banche, società finanziarie) e i fornitori di servizi ( i soggetti del terzo settore: dalle ONG, alle imprese sociali, alle no profit ), si istituisce poi ad hoc un soggetto terzo, addetto al monitoraggio del patto stesso e delle azioni di perseguimento dell’obiettivo sociale.

In tempi in cui il dogma del “non ci sono soldi” sembra essere stato assunto acriticamente da chiunque, sembra una buona idea permettere allo Stato di fare cassa sui servizi essenziali quali la scuola e l’istruzione in generale. Lo Stato nel modello SIB infatti ci guadagna perché esternalizza un servizio, declina le responsabilità politiche ed economiche su pezzi sempre più ingenti di welfare e sperimenta modelli privatistici capaci di rendere stabili e strutturali le politiche dell’austerity rispetto al contenimento della spesa pubblica e al risicato ruolo dello Stato nell’economia.

Facciamo un esempio: se una fondazione privata finanzia un progetto di educazione alla salute per gli studenti, questa innanzitutto stipula un patto che prevede come obiettivo sociale – ammettiamo – il cambiamento di determinati comportamenti scorretti e la riduzione del tasso di malattie infettive trasmesse in classe. La fondazione sostiene le spese di cui necessita l’ONG per tenere i corsi e le attività nelle scuole e ha margini di profitto nello svolgimento dell’attività stessa (es. zero costo lavoro nel caso di impiego di volontari, quote di partecipazione al corso, ecc.),  ne ha altri proprio da parte dello Stato nel caso in cui raggiunga l’obiettivo pattuito. Il risparmio pubblico infatti, in caso di raggiungimento dell’obiettivo sociale, viene utilizzato per ricapitalizzare e remunerare aggiuntivamente gli investitori. Questi quindi rinunciano alla “certezza del profitto” che avrebbero in altri campi e si danno agli investimenti sociali, da un lato per un’ipotetica filantropia dall’altro perché favoriti da questi incentivi statali.

Chi ci guadagna? I sostenitori nostrani dei Social Impact Bond sostengono che il modello è positivo proprio perché ci guadagnano tutti i soggetti coinvolti e garantisce livelli di welfare in tempi in cui le risorse pubbliche sono scarse. Per avallare questa tesi chiamano in causa le esperienze sviluppatesi in Inghilterra e negli USA, pioniere nella sperimentazione di questi strumenti di finanza ad impatto sociale e soprattutto, laboratori di profonde disuguaglianze socio-economiche e di politiche di smantellamento dello Stato Sociale.

In questi Paesi infatti i SIB hanno dimostrato di avere più limiti che pregi. Innanzitutto la valutazione dei risultati sociali, sulla quale si basa l’erogazione dei fondi pubblici ai privati, è un’operazione né neutra né meccanica. Come diverse analisi del modello inglese e americano hanno ribadito, la statistica legge parzialmente le trasformazioni sociali che si producono nei contesti territoriali, di certo non può legittimare nessuno ad attribuire la responsabilità di quella trasformazione ad un unico finanziatore, né può quantificare il risparmio che viene dalla risoluzione di quel determinato problema sociale. La decisione degli obiettivi, la valutazione delle trasformazioni sociali e la distribuzione dei finanziamenti pubblici è un tema che riguarda le parti sociali del mondo della scuola ed è un tema politico che non può essere sottratto al dibattito. E’ contraddittorio che il Governo chiami alla consultazione sul Piano Scuola addirittura “il Paese intero”, per riservarsi poi di contrattare con banche ed imprenditori le azioni che effettivamente potranno essere finanziate.

Sul piano della governance il sistema integrato pubblico-privato dei SIB infatti esclude completamente la partecipazione dei cittadini alla gestione democratica dei servizi, cosa che – soprattuto in Italia – è stata rivendicata dalle mobilitazioni che in questi anni hanno contestato la privatizzazione selvaggia dei settori dell’istruzione così come della sanità e del welfare tutto. I SIB non garantiranno necessariamente livelli di prestazione migliori, anzi, sicuramente relegheranno cittadini e cittadine al ruolo di meri utenti.

Il metodo del “pagamento per risultati” ha inoltre conseguenze profonde sul mondo del Terzo Settore che, proprio in questi mesi, il governo italiano sta riformando. I rischi, riscontrati in Inghilterra, sono tre: da un lato la possibilità per le imprese sociali for profit di guadagnarsi un ruolo più pesante rispetto a quelle no-profit, dall’altro un meccanismo di “distorsione delle attività” determinato dalla promozione dall’alto di determinati obiettivi, infine il rischio di veder appaltata una fetta consistente di servizi e lavori pubblici a volontari, ossia “lavoratori a costo zero”. Le organizzazioni no-profit, quelle che perseguono obiettivi sociali differenti rispetto a quelli decisi a livello centrale da Governi e imprese, così come i volontari del terzo settore, rischiano oggi di rimanere schiacciati nel modello SIB.

Nonostante questi ed altri limiti, la “finanza ad impatto sociale” si sta facendo largo nel dibattito internazionale come panacea a molti dei mali che vivono i Governi in questa fase di crisi, relativamente alla gestione dei servizi pubblici e al rilancio dell’economia. Le pressioni internazionali per la diffusione del modello SIB sono forti: in queste settimane ad esempio si è conclusa una task force del G8 titolata “La Finanza che include: gli investimenti ad impatto sociale per una nuova economia”. Paradossalmente, nel mezzo di una crisi economica causata proprio da una finanza sfrenata e senza vincoli, i Governi discutono non tanto di come porre regole e limiti alle speculazioni finanziarie, non tanto di come re-distribuire le ricchezze, ma piuttosto di come convincere l’1% di speculatori e l’alta finanza a investire sul sociale.

I risultati non sono solo scarsi ma anche velleitari: in America ad esempio la Goldman Sachs è una delle banche d’affari coinvolte nel programma SIB, gli investimenti sociali che essa ha messo in campo non hanno cambiato di una virgola la natura delle sue politiche finanziarie.

“Insomma tra uno Stato non sempre efficiente e la mano invisibile di un mercato (globalizzato e digitale) che ha lasciato molti, troppi, indietro, si fa strada il nuovo paradigma dell’impact investment.” Quale è questo paradigma? Il rapporto steso dalla commissione del G8 ci dice che “la rivoluzione dell’impact è l’affermazione del cuore invisibile dei mercati attraverso la sua terza dimensione, questa non sarà mai possibile in assenza di metriche e strumenti di misurazione finalizzati a registrare la creazione del valore sociale.”

La posta in gioco che apre il Piano Scuola per quanto riguarda i finanziamenti ci sembra alta: dalla privatizzazione definitiva del welfare, alla trasformazione paradigmatica del Terzo Settore, che è oggetto di una riforma discutibile, alla finanziarizzazione dell’economia che a livello internazionale viene favorita, fino alla sperimentazione fattiva di un’authorithy che fa della “valutazione” uno strumento tutto politico di decisione e controllo. E’ uno strumento pienamente in linea con la finanziarizzazione dei beni comuni, dei servizi e dei diritti delle persone, che rappresenta un ulteriore fronte aperto dal capitalismo contemporaneo per espandersi e risolvere la crisi sistemica che colpisce la società. Di fronte a queste innovazioni e a questo progetto complessivo serve una risposta forte da mettere al centro delle mobilitazioni autunnali.

Tratto dal Granello di Sabbia di Ottobre 2014: “La Buona ScuolAzienda”, scaricabile QUI

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