di Vittorio Lovera
Dopo una lunga malattia, vissuta con la sua proverbiale riervatezza e con la dignità che ha contraddistinto tutto il suo percorso di vita e di impegno, è mancato il Prof. Rodotà.
Stefano voleva lo chiamassimo così, in qualunque ambito ci si rapportasse.
Stefano era un amico per tutti coloro con cui entrava in empatia, nella vita accademica come in quella culturale, politica, sociale e nella vita di tutti i giorni.
Piaceva a tutti, in primis perché era un uomo estremamente sobrio.
Con quella sobrietà di stile, di presenza, di eloquio, di comportamento trasmetteva a tutti, anche a chi non condivideva le sue opinioni, la sua assoluta rettitudine, la sua schiena dritta, il suo spirito di servizio, il suo essere hombre vertical.
Sobrio, modesto, disponibile, coerente.
Per un uomo avvezzo alle Istituzioni – e lui lo è stato a tutti i livelli – qualità rarissime.
A piedi alle riunioni, in compagnia della sua semplice e immancabile borsa, sedeva con discrezione, ascoltava tutti con estrema attenzione, prendeva appunti sui suoi proverbiali fogliettini. E poi, quando interveniva, pacato nei toni, dirompente nei contenuti e nelle analisi, risultava una vera illuminazione: chiaro, lucido, puntuale, assertivo, innovativo.
E quando lo andavi a prendere in stazione o all’aeroporto per le iniziative in giro per l’Italia, era lui che ti ringraziava per la cortesia. Lui che non si negava mai a nessuno e per questo costretto a veri tour de force.
Nella malattia, mai sentito lamentarsi, gli unici accenni erano ironici e sottolineavano soprattutto il dispiacere di non poter fornire assiduamente il suo contributo.
Nei coccodrilli usciti sui media – anche in quelli con i quali ha più strettamente collaborato – si nota la quasi totale rimozione di due temi sui quali Stefano si è speso direttamente e con la sua proverbiale passione, e che mise al centro della sua iniziativa: l’Acqua Pubblica e l’occupazione del Teatro Valle.
“Il percorso delle leggi di iniziativa popolare (Camera e Regioni) e la vittoria del Referendum sull’Acqua Pubblica sono il più rilevante fatto politico degli ultimi 20 anni” diceva a noi del Forum Acqua – “i ragazzi” ci appellava – e lo ripeteva come un mantra in qualunque assise pubblica.
Acqua come paradigma di tutti i beni comuni e soprattutto della democrazia, capace di captare il convinto consenso di 27 milioni di cittadini e, ciononostante, rimanere inapplicato a causa di una classe politica – indistintamente “vecchia” o “nuova” – sorda al volere dei cittadini e prona a quella dei mercati.
Un vulnus democratico che, come conferma questa censoria rimozione mass mediatica, lascia capire gli interessi economici in gioco sulla questione acqua pubblica (e l’attuale siccità ne evidenzia i risvolti più drammatici).
Un vulnus che lui, il garante del Diritto e dei diritti, non digerì mai e che gli ingenerò forte sgomento e un continuo tormento.
Ci riceveva nella sua saletta, alla Fondazione Basso – la sua seconda casa. Una scrivania colma all’inverosimile di libri, appunti, lettere: un caos infinito nel quale Stefano si raccapezzava a meraviglia.
Lì nella “sua tana” era più complicato interagire con lui: era un fiume in piena e tra una telefonata ricevuta e un’altra telefonata e un’altra ancora, saltava di palo in frasca, aneddoti istituzionali, racconti accademici, esempi di diritto internazionale, poi “scusate le digressioni, ragazzi. Torniamo al punto”, ascoltava per un po’ attentissimo, poi riprendeva parola e ti avvolgeva e affascinava coi suoi meta-pensieri.
A volte, con Paolo, Marco, Corrado e chi, di volta in volta ha fatto parte delle frequenti delegazioni, siamo usciti dalla Fondazione quasi confusi da quel suo libero caravanserraglio di acute riflessioni e apparenti digressioni.
Abituati al Rodotà pubblico, preciso e puntuale, logico, chiaro, esaustivo, assertivo, quel suo modo di procedere ci confondeva.
Poi, ogni volta ognuno di noi – nel breve tratto di strada tra la Fondazione e il Rialto – arrivava alla conclusione che ogni suo singolo riferimento, apparentemente casuale, aveva un profondo filo rosso con le tematiche del nostro incontro.
Ogni tanto chiamava e si informava su qualche aspetto specifico delle vertenze acquaiole, dal ricorso al Tar alle prossime iniziative alla situazione di cassa.
Era un altro suo modo di dirci che lui c’era sempre, il suo sprone per invitarci a proseguire con lo stesso entusiasmo del primo giorno.
Sobrio e coerente, carismatico ed autorevole, con una cultura infinita e visionaria (fin dagli anni ’80 aveva intuito e ragionato sul ruolo della Rete e delle nuove tecnologie) rilasciata sempre senza ostentazione, quasi con modestia.
La sua strenua difesa della Costituzione ha fatto sì che una Nazione sempre più avviluppata su se stessa salvaguardasse – per quanto possibile – almeno la sua Carta Costituzionale, dai ricorrenti attacchi provenienti ora da destra ora dal Pd.
Anche per questo, lui davvero può essere annoverato tra i padri della patria.
Lui che la Costituzione l’avrebbe sì aggiornata – nuovi diritti per tutti, beni comuni in Costituzione – sempre nel senso democratico ed inclusivo voluto dai Padri costituenti.
La sua battaglia per il Teatro Valle è poi la prova di come fosse in campo ogni qualvolta servisse il suo autorevole contributo per alzare l’asticella della legalità sull’uso pubblico dei beni comuni: intervento del costituzionalista Rodotà al Teatro Valle, alla presentazione della libera Fondazione Teatro Valle – al cui statuto lavorò alacremente con tutto il collettivo del Valle – e l’interminabile applauso che ne seguì, generano ancora brividi di emozione alla moltitudine presente all’evento.
Un insegnamento, quell’intervento, che dovrebbe servire da monito e da orizzonte a quelli che oggi – passati da oppositori a dominus in Città – in nome della “legalità” procedono a sgomberi diffusi e utilizzano la forza pubblica come clava contro qualsiasi forma di dissenso e di rivendicazione.
Intanto Rialto come Teatro Valle, come mille altri spazi, sono tornati da beni comuni utilizzati e vissuti, nell’oscuro limbo delle riserve immobiliari da depredare quanto prima o merce di scambio per opache future dismissioni.
Stefano era vicino a molti dei percorsi dei movimenti, ci spronò nell’esperienza di Nuova Finanza Pubblica e Sociale (ora affidata al Cadtm Italia, Comitato italiano per l’annullamento del debito illegittimo) e nel fronteggiare i trattati commerciali (TTIP e Ceta), ma non era certo il tipo da farsi tirare per la giacchetta quando gli sviluppi di qualcosa non lo convincevano fino in fondo. Come avvenne, ad esempio al Cinema Palazzo durante una tappa della Costituente per i Beni Comuni.
Stefano Rodotà, nel tribolato 2013, sarebbe stato il Presidente ideale per un Paese che voleva cambiare rotta, ma che uscì da quelle elezioni per la Presidenza della Repubblica ancor più diviso e sopraffatto (con l’anomala riproposizione temporale di Giorgio Napolitano).
Venne tradito, impallinato dal Pd, e dai giochetti di leadership interna tra Bersani e Renzi proprio come lo fu precedentemente dal Pds per la nomina a Presidente della Camera, e dall’assoluta improvvisazione dei 5S, che subito dopo arrivarono, con Grillo, persino a dileggiarlo.
Sarebbe stato un altro Paese, quello con Rodotà Presidente e non avremmo certo conosciuto alcune delle degradanti pagine di politica nazionale che sarebbero a breve seguite.
Sarebbe stato il Presidente che i cittadini avrebbero voluto, e che per noi, con la sua dirittura morale, con i suoi insegnamenti, di fatto è stato.
Pur essendo stato un vero e indipendente uomo delle Istituzioni, Stefano non ne è mai stato assolutamente in balia, come ha ben sintetizzato Travaglio su Il Fatto “Sempre dalla parte giusta, quindi sempre fuori da tutto”. Meglio non essere Presidente se per esserlo occorre piegare la schiena ai diktat dei partiti, vecchi o nuovi che siano, lui che non era né antipartitico né antisistema.
Ti porteremo per sempre nel cuore, arricchiti dalla tua amicizia, dalla tua ininterrotta ricerca, dal tuo esempio, e non arretreremo mai di un metro sulle battaglie di democrazia e di ampliamento dei diritti che assieme abbiamo prodotto. Saremo a renderti omaggio sia nella camera ardente predisposta a Montecitorio, sia nella tua Università, La Sapienza. Alcuni dei tuoi luoghi più rappresentativi.
Ci sarebbe piaciuto commemorarti anche al Rialto e al Teatro Valle, spazi di un decennio di intensa strada comune, ma non sarà possibile, almeno per ora.
Le nostre lacrime sono di intensa commozione ma anche di cupa rabbia: il mondo che abbiamo sognato assieme è ancora nella disponibilità di mediocri così mediocri che da vero Presidente tu avresti fulminato col tuo sguardo penetrante.
Ciao amico ciao, che la strada ti sia lieve.