Il NON voto: solo nichilismo? Interpretazione militante di un’assenza, di Pino Cosentino, il granello di sabbia n.20, giugno-luglio 2015

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di Pino Cosentino, dal granello di sabbia n.20, giugno-luglio 2015  

L’anno scorso fece scalpore il dato dei votanti nelle elezioni regionali della Calabria e dell’Emilia Romagna. Il 44,07% di votanti in Calabria, per quanto scarso, non impressiona molto. Il 37,67% di votanti in Emilia Romagna, una delle regioni più ricche, progredite e “rosse” d’Italia è stato invece un risultato esplosivo. L’Emilia Romagna è la vetrina della sinistra da molto tempo, l’esempio di cosa intende il suo maggiore partito quando enuncia il proprio progetto politico: fare dell’Italia un paese “normale”. Effettivamente, anche inquadrato nel trend declinante della partecipazione al voto, il caso emiliano appare anomalo. Nelle elezioni regionali del 31 maggio scorso l’afflusso dei votanti ai seggi si è fermato, nel complesso delle 7 regioni coinvolte, a un misero 53,90%, con una forbice che va dal minimo della Toscana (48,28%) al massimo del Veneto (57,15%). Questi dati poi sovrastimano la partecipazione al voto, perché non tengono conto delle schede bianche e nulle, circa il 4%. Di queste le bianche e una parte delle nulle esprimono il rifiuto del voto, e sarebbero da sommare ai non votanti che non si sono recati ai seggi. Sicché appare giustificata l’affermazione che i votanti effettivi siano stati di appena un pelo sopra il 50% degli aventi diritto. Sempre molto di più del dato emiliano di due anni fa. 

Come al solito da parecchi anni a questa parte assistiamo alle interpretazioni più disparate, ma quasi tutte o assolutamente ovvie (disaffezione, avvertimento, punizione… parole che non spiegano niente), oppure rivolte a fattori contingenti, come lo scarso appeal della Paita in Liguria, il contrasto Zaia-Tosi in Veneto ecc. Più che interpretazioni, assistiamo a narrazioni, le quali avrebbero bisogno a loro volta di essere inquadrate in un qualche schema interpretativo. 

Interpretare un’assenza è sempre un esercizio pericoloso, l’interprete riempie il vuoto mettendo sé stesso al posto dell’interpretato, sicché il travisamento più che un pericolo è una certezza. 

Poiché sono convinto che la politica non è una scienza ma una prassi (detto terra terra: una costruzione), azzardo un’interpretazione “militante”. Che a sua volta innescherebbe una catena di ulteriori spiegazioni/ interpretazioni, ma in questa sede mi fermerò al primo strato della cipolla. 

Si ripete come un mantra che il voto e’ un diritto (ed è vero!), la conseguenza di una tale perentoria quanto ovvia affermazione è che i non votanti vi rinunciano per un misto di viltà, di incoscienza, di arrendevolezza… insomma il non voto sarebbe una resa, qualcosa di puramente negativo, la manifestazione di una debolezza morale, di una manchevolezza. Una conseguenza del galoppante degrado antropologico del “tipo” italico. 

Non si vede l’altra faccia del voto, egualmente vera: l’accettazione della SOTTOMISSIONE a un sistema politico strutturalmente ordinato a rappresentare gli interessi di una minoranza privilegiata a scapito della maggioranza dei cittadini. 

Con il voto, certificato dai registri elettorali e dal timbro apposto sulla tessera, io accetto e lo sottoscrivo personalmente, di trasferire i miei diritti sovrani a un ristretto ceto che li eserciterà contro di me. Accetto e sottoscrivo di trasformarmi da sovrano in suddito. Dando per scontato che una parte del non voto sia fisiologica, dovuta a motivi pratici e/o a semplice disinteresse per tutto ciò che non ci riguarda personalmente, resta almeno un 25% dell’elettorato che oggi rifiuta di votare perché, magari in maniera confusa, ha capito questo lato del voto (un rito di sottomissione) e intende ribellarvisi, anche se sterilmente. Obiezione: se questo fosse vero, perché i non votanti non votano le liste che hanno programmi e comportamenti chiaramente antisistema? 

Sarebbe utile a questo punto e forse anche doverosa, un’inchiesta tra gli interessati, visto che personalmente sono un votante. In attesa di ciò, esprimo la mia modesta opinione: le liste “antisistema” non sono abbastanza “antisistema”, anzi mostrano già molti sintomi dell’integrazione nel sistema. Integrazione non voluta, ma che avviene per l’incapacità di dare soluzioni alternative e funzionanti al sistema esistente. Mi pare che ci sia, anche nelle forze politiche più “alternative” e a parole sostenitrici della democrazia partecipativa, un’accettazione sostanziale di questo sistema politico, di cui si vede solo il lato positivo (vedi “la Costituzione più bella del mondo”: anche questo è vero, ma bisognerebbe smetterla di ragionare booleanamente, una verità non esclude l’altra), mentre i fenomeni negativi sono considerati “degenerazioni”, da guarire con l’immissione di ingenti dosi di “onestà”, stili di vita alternativi, politiche “di classe” ecc..

La prova? Candidano gli esponenti migliori, ed è sottinteso che la candidatura sia un riconoscimento al valore. Si genera così, o si mantiene e si alimenta, la classica ripartizione tra politica “alta” e “bassa”, tra la politica vera e propria, quella che avviene nelle sedi istituzionali, la politica delle rappresentanze, e una politica minore, quella dei movimenti, della gente comune: la politica-partecipazione. 

La tanto esaltata “partecipazione” è ricondotta alla condizione di ancella. La politica vera non è nella società, con le sue divisioni, le sue disuguaglianza, ingiustizie, brutture. Con l’asprezza delle sue contrapposizioni. Ma è quella ritualizzata tra “colleghi” nelle aule eleganti, confortevoli, munite di ogni comodità, dove l’asprezza dei conflitti tra interessi contrapposti resta solo come spettacolo, come finzione teatrale tra persone accomunate dalla stessa condizione privilegiata. 

Nei movimenti politici si ritrova tutto lo strato dirigente occupato a studiare leggi e regolamenti, procedure burocratiche, mozioni, interrogazioni, proposte di legge…occupano la loro quota di posti nelle presidenze delle assemblee, delle commissioni… Il movimento si è fatto istituzione non perché l’abbia voluto ma perché il suo gruppo dirigente si è trasferito là, nella rappresentanza. 

Chi ha provato a ribaltare questa rappresentazione è stato il Movimento 5 Stelle, ma anch’esso ha fatto le cose a metà. Non intendo qui tornare sull’anomalia “Grillo-Casaleggio”. A prescindere da essa, è facile constatare che la leadership diffusa che sta emergendo, a livello nazionale e locale, è tutta incistata saldamente nella rappresentanza. Anzi, che la conquista di un posto nella rappresentanza è il lasciapassare per far parte dell’élite dirigente. Anche nel M5S è del tutto evidente che la leadership in formazione è costituita dai gruppi parlamentari, mentre a livello locale sono i consiglieri comunali e regionali. La “partecipazione” resta, ma come volontariato, che viene associato a un altro termine: dilettantismo. Ammirevole, ma funzione minore e ausiliaria rispetto all’altra. Resta, perché è una vetrina da esibire, e perché è da lì che vengono i voti. 

Ritengo invece che la guida dei movimenti politici alternativi dovrebbe stare fuori della rappresentanza. Il suo posto è nella partecipazione. Il suo posto è tra il popolo, se lo scopo è cambiare la società e fare del popolo il soggetto della politica, non l’oggetto com’è ora. Questo non necessariamente “per sempre”, ma almeno finché dura la fase transitoria da qui all’instaurazione della democrazia partecipativa come prassi normale di vita e di gestione degli affari pubblici. 

Questa è un’interpretazione “militante” (e molto parziale) perché il mio interesse non è di aggiungere un mattone alla scienza politologica, ma di sollecitare gli attori in campo a una riflessione operosa.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 30 di Settembre-Ottobre 2017: “Democrazia Partecipativa” 

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