IL MERCANTE D’ACQUA ED I SUOI CLIENTI

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Banca Mondiale e promozione della privatizzazione dell’acqua nei paesi in via di sviluppo, con particolare riferimento all’Africa

di Francesco Martone

Maggio 2005

INTRODUZIONE

Molte sono le sfide da affrontare per un recupero ed una gestione equa dei beni comuni, dalla ricostruzione di modelli di democrazia partecipativa, dal basso, alla protezione attiva degli stessi dall’invadenza ormai pervasiva del mercato, a quella, stimolante, della creazione di una nuova sfera pubblica. Ogni iniziativa volta ad affermare la indisponibilità dei beni comuni, in questo caso dell’acqua, ed il diritto umano alla stessa, non può però limitarsi all’ambito strettamente nazionale o locale, politico o amministrativo che sia. In un ottica di solidarietà globale, nella quale il perseguimento e la promozione dei beni comuni si svolge su un asse locale-globale, andrà approfondito anche a livello programmatico-operativo il nesso tra privatizzazione e politiche economiche e finanziarie internazionali.

La privatizzazione dell’acqua nei paesi in via di sviluppo non sarebbe infatti possibile senza il sostegno diretto delle istituzioni finanziarie internazionali, a maggior ragione in questa fase storica con un mercato dell’acqua apparentemente meno appetibile per le imprese.

Ciononostante Banca mondiale e Fondo Monetario Internazionale continuano a perseguire la ricetta neoliberista, ed inseriscono la privatizzazione dell’acqua nel pacchetto di riforme macroeconomiche che sono alla base dei loro interventi nei paesi in via di sviluppo.

Vien da sé che in tali scelte anche l’Italia ha le sue responsabilità visto che partecipa con consistenti quote finanziarie alle attività della Banca mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Ed è altrettanto evidente che queste istituzioni ora usano in maniera strumentale degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, quali la riduzione a metà del numero di persone che non possono accedere all’acqua entro il 2015, per sostenere ed incentivare una maggiore aggressività del settore privato. A fronte di una carenza di impegni finanziari dei governi dei paesi più ricchi, e con il pretesto di contribuire al perseguimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite, la Banca mondiale ha infatti previsto un raddoppio dei finanziamenti nel settore idrico per passare dai 523 milioni di dollari nel 2002 ai 1,3 miliardi nel 2003.

A nulla sembra valere l’ormai comprovato fallimento delle politiche di privatizzazione dell’acqua nell’assicurare l’accesso alle classi più povere.

LA BANCA MONDIALE ED IL MERCATO DELL’ACQUA

Il mantra della privatizzazione non è sempre stato ricorrente nell’armamentario finanziario e culturale della Banca. Nel ventennio tra gli anni ’60 agli anni ’80 la Banca aveva infatti concentrato i suoi sforzi sulla creazione e l’espansione del settore pubblico nell’erogazione dei servizi idrici, soprattutto concentrandosi sulla costruzione di grandi infrastrutture (dighe in particolare) Negli anni ’60 e ’70, le imprese idriche erano considerate un monopolio naturale al di fuori dai meccanismi della competitività di mercato e quindi da lasciare nelle mani del settore pubblico. Pertanto la Banca operò nella convinzione che i servizi pubblici, se accompagnati da stabilità finanziaria e sostegno agli investimenti privati, potessero essere un volano indiscusso di sviluppo.

E’ però con l’avvento del Consenso di Washington e del fondamentalismo di mercato, che la Banca si converte al credo della privatizzazione, con effetti tangibili anche nelle attività della Banca nel settore idrico. Nel 1993 la “Water Resource Management Policy” della Banca raccomanda l’aumento della quota di partecipazione del settore privato negli investimenti diretti alla risorsa acqua, visto che la scarsa qualità e l’inaffidabilità dei servizi pubblici si sarebbe tradotta in minor propensione degli utenti a pagare le tariffe d’uso. Parallelamente si diffusero dati estremamente ottimistici sulla potenziale crescita del mercato dell’acqua. La “World Water Commission” (Commissione Mondiale sull’Acqua) prevedeva nel suo “World Water Vision, Water Secure World” che gli investimenti privati sarebbero aumentati del 620% nel giro di 30 anni, per rappresentare nel 2025 il triplo dell’ammontare degli investimenti pubblici nel settore.

Paradossalmente, dopo un picco nel 1995 la percentuale di finanziamenti nel settore acqua ha iniziato a decrescere. Nello stesso anno la Banca ha dovuto ammettere che il declino nell’interesse nel settore acqua è stato accompagnato da una riduzione nell’interesse degli investitori e da uno spostamento dell’opinione pubblica contro la privatizzazione dei servizi contrariamente alle stime ottimistiche degli anni precedenti.

Queste constatazioni non hanno però portato a cambiamenti di rilievo nella linea politica della Banca. Secondo uno studio dell’International Consortium of Investigative Journalists del Center for Public Integrity di Washington (Febbraio 2003) la maggior parte dei prestiti della Banca nel settore per il quinquennio 1998-2003 aveva come condizione la trasformazione di sistemi pubblici in privati con un impatto devastante in termini di corruzione, aumento delle tariffe, e riduzione dell’accesso ad acqua di buona qualità.

Ciononostante in molti alla Banca mondiale continuano a sostenere pubblicamente che la stessa la stessa si starebbe disimpegnando progressivamente dalla privatizzazione dell’acqua. Tale affermazione è stata facilmente confutata dall’ONG americana Public Citizen che in un suo rapporto svolge un analisi dettagliata dei prestiti della Banca mondiale nel settore idrico dal 2000 al 2004 dimostrando come la Banca continui nel suo “business as usual”.

UNA BARCA DI SOLDI CHE FA ACQUA DA TUTTE LE PARTI

Per dare un’idea del volume di esborsi finanziari in sostegno alla privatizzazione dell’acqua, basti pensare che dal 1994 al 2004 la Banca Mondiale ha erogato prestiti nel settore idrico pari a circa 20 miliardi di dollari, passando da un totale annuo di 1,3 miliardi di dollari nel 2003 a 4 miliardi di dollari nel 2004.

Prendendo il caso dell’Africa, il rapporto di Public Citizen sottolinea che dal 2000 al 2003 la Banca ha investito un totale di 1024,55 milioni di dollari nel settore idrico, il 100% dei quali indirizzati alla promozione della privatizzazione.

Nel Burkina Faso nel gennaio 2001 poco prima dell’approvazione di un prestito della Banca Mondiale, Vivendi ottenne un contratto quinquennale. La compagnia poi usufruì del prestito della Banca per un totale di 70 milioni di dollari. In Ciad, un prestito di 54,8 milioni di dollari della Banca Mondiale sarebbe servito a creare le condizioni per trasferire il controllo dei servizi idrici alla Vivendi. La stessa ricetta venne prescritta nelle Comore, in Guinea, Guinea Bissau, Kenya, Mauritania, Malati, Mozambico (con la partecipazione di SAUR e Aguas de Portugal), Nigeria, Ruanda, Senegal, Tanzania (imprese beneficiarie furono Biwater e Gauff Ingenieure) e Tunisia.

La Banca non è sola nel perseguire il suo fondamentalismo di mercato. Esiste infatti una sorta di ripartizione del carico di lavoro con il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Mentre la Banca si incarica delle questioni strutturali quali la privatizzazione delle compagnie di proprietà dello stato, contribuendo con le risorse finanziarie necessarie allo scopo, l’FMI impone la scelta della privatizzazione come condizione per l’accesso ai suoi pacchetti di salvataggio finanziario .

Un’ analisi sommaria dei prestiti concessi dall’FMI in 40 paesi nel 2000 dimostra che in almeno 12 casi tra le condizionalità previste c’era la privatizzazione dell’acqua, o l’introduzione di tariffe d’uso. La maggioranza dei paesi erano paesi poveri ed indebitati dell’Africa sub-sahariana. Per la Tanzania la privatizzazione dell’acqua era stata fissata come condizione per poter accedere ai programmi di rinegoziazione del debito estero (iniziativa HIPC) , lo stesso dicasi per Niger, Senegal, Ruanda e Sao Tomè e Principe. In questi casi si trattava di condizioni poste per accedere ai prestiti della Poverty Reduction and Growth Facility (PRGF).

In Angola si chiedeva una ristrutturazione del sistema tariffario per ottenere un ritorno congruo dagli investimenti di capitale, in Benin si chiedeva la privatizzazione del settore idrico ed elettrico, mentre in Guinea Bissau si esortava il paese a trasferire la gestione dell’acqua e dell’elettricità ad una compagnia privata nell’ambito di un programma di emergenza e ricostruzione post-conflitto.

La Banca ed il Fondo operano in base all’assioma secondo il quale la dismissione delle imprese di proprietà dello stato in favore di compagnie private può aumentare l’efficienza economica della gestione delle risorse idriche con conseguente riduzione del debito pubblico ed una miglior gestione del bilancio nazionale. I governi prevedono così di ridurre il loro deficit attraverso la privatizzazione.

Tuttavia la volontà delle imprese ad investire dipende principalmente dalla loro capacità di massimizzare il ritorno sull’investimento stesso. Quest’ultima dipende a sua volta dal livello di tariffe imposte agli utenti, ed al tipo di accordo tra governo ed impresa privata relativo alla attribuzione delle responsabilità per i costi di manutenzione ed espansione ed alla controllo azionario della compagnia stessa.

In ultima analisi la riduzione del debito pubblico del paese “beneficiario” ed un adeguato profitto per l’impresa privata si traducono in onere finanziario sulle spalle degli utenti che vedranno aumentare le tariffe. E non solo.

ACQUA COME BENE ECONOMICO E BISOGNO

Nella sua recente “Water Resources Sector Strategy” la Banca considera l’acqua come un bene economico e sociale, il cui accesso deve essere considerato un bisogno. Due sono in tale ottica le sfide da affrontare: la prima è lo sviluppo di un’adeguata legislazione e la capacity building (80% dei fondi della BM nel settore acqua) e lo sviluppo di moderne infrastrutture (dighe e sbarramenti, trasferimento e gestione dei bacini acquiferi, che necessitano di un maggior coinvolgimento del settore privato. Il documento auspica che “gli investimenti e la gestione privata dei servizi idrici abbiano un ruolo crescente”.

Così si può intendere la tendenza registrata nell’ultimo anno nella Banca a riprendere il sostegno alle grandi dighe, con un parallelo indebolimento dei vincoli socio-ambientali cui la stessa Banca dovrebbe essere sottoposta. L’approvazione nel 2005 della megadiga Naem Theun II in Laos rappresenta quindi uno spartiacque. Così facendo la Banca ha deciso di mettere definitivamente nel cassetto le raccomandazioni della Commissione Mondiale sulle Grandi Dighe (WCD – World Commission on Dams) da essa stessa finanziata.

La “Water strategy” non risolverà le emergenze rurali: secondo le stime finanziarie dovrebbero essere spesi almeno 180 miliardi di dollari l’anno per costruire grandi dighe ed altri progetti ad alta intensità di capitale sulla base di un modello di calcolo basato esclusivamente sull’ipotesi che prevede la costruzione di grandi infrastrutture. Non essendo possibile per i paesi in via di sviluppo generare o accedere a risorse pubbliche di tale entità , sarò necessario prevedere un massiccio ricorso al capitale privato. Secondo Vision 21 l’ammontare sarebbe invece inferiore ad un terzo (9 mld di dollari fino al 2025) se si decidesse di sostenere progetti community-based,.

La Banca fonda il suo approccio sulla presunta “volontà e capacità di pagare” degli utenti. Secondo studi svolti negli anni ’70, la Banca presume che una famiglia sarebbe disposta a destinare fino al 5% del suo bilancio totale al pagamento delle tariffe per l’acqua. La Banca però opera una pericolosa e surrettizia confusione tra volontà e capacità di pagare:” Si presume che i benefici alla salute percepiti dagli utenti, si traducono nella loro propensione a pagare per acqua di buona qualità”.

Un assioma del tutto infondato e contraddetto dalla realtà dei fatti, ed i cui effetti sulla salute pubblica sono assolutamente devastanti al punto da poter configurare una forma di violazione diffusa del diritto umano alla salute.

Nelle Filippine, , la privatizzazione imposta dalla Banca mondiale e dalla Banca Asiatica di Sviluppo (ADB) ha portato ad un aumento delle tariffe ed alla conseguente impossibilità per le classi più povere ad accedere ad acqua di qualità. Ciò ha comportato un aumento esponenziale dei casi di colera e gastroenterite a Manila, dove la rete idrica era gestita da una succursale della Suez (Maynilad Water) e la Manila Water di proprietà della Bechtel. La Maynilad responsabile per la distribuzione dell’acqua dal 1997 non ha poi rispettato gli obblighi contrattuali in termini di espansione dei servizi, ed ha aumentato contemporaneamente i prezzi del 500% nei primi sei anni. Nel 2002 il governo si è rifiutato di approvare questo aumento e l’impresa fece ricorso ad un arbitrato internazionale. Il contratto venne rescisso e la Suez non vinse la causa.

Nel caso del Senegal, la francese SAUR ottenne nel 1996 un prestito di 96 milioni di dollari dalla Banca Mondiale per assicurare un recupero dei costi per il gestore privato, a condizione di imporre tariffe d’uso anche alle famiglie più povere. DI conseguenza le popolazioni povere non hanno potuto far altro che soddisfare le loro necessità utilizzando acqua non trattata.

RESISTENZA POPOLARE E PARTITE ANCORA APERTE

A fronte delle gravi ripercussioni socio-sanitarie derivanti da programmi di privatizzazione dell’acqua, non c’è da sorprendersi che l’opposizione popolare ai programmi di privatizzazione sia ampiamente diffusa in particolare nel cosiddetto Sud del mondo.

In Salvador, la privatizzazione dell’acqua che la Banca mondiale ha cercato di introdurre con un prestito di 24 milioni di dollari nel 1996 ha incontrato la dura opposizione popolare e la decisione del governo di bloccare i programmi di privatizzazione. La privatizzazione a Conakry, Guinea, ha portato ad un aumento del 500% del prezzo in 5 anni: in seguito il governo nazionale ha deciso di non rinnovare il contratto decennale. A Tucuman, in Argentina, l’aumento dei prezzi ha portato ad una campagna per il non pagamento ed alla rinazionalizzazione.

Per quanto riguarda la Bolivia, paese al centro dell’attenzione dopo la rivolta di Cochabamba e quella più recente contro Aguas del Illimani, nella provincia de El Alto, la strategia di privatizzazione dell’acqua è stata iniziata dal governo agli inizi degli anni 90, su spinta della Banca Mondiale. Nel 1994 la BM ha iniziato concedendo prestiti alle municipalizzate che sarebbero poi state sottoposte a programmi di privatizzazione. Venne creata la Superintendencia del Agua che avrebbe dovuto trattare la concessione di servizi al Aguas del Illimani ( di proprietà francese) Contemporaneamente vene firmato un accordo d concessione alla Suez-Lyonnaise del Eaux per 30 anni. La Banca minacciò di ritirare il suo sostegno in caso non si fosse proceduto alla privatizzazione. Inoltre, in seguito alla rivolta di Cochabamba, dove la privatizzazione aveva portato ad un aumento del 68 percento delle tariffe, la Bechtel (che opera in Bolivia attraverso Aguas del Tunari) ha chiesto l’intervento dell’ICSID per ottenere un risarcimento ai danni presumibilmente subiti ( 25 milioni di dollari in danni e profitti mancati) in conseguenza della rescissione del contratto da parte del governo boliviano.

A fronte di casi di successo, non ultimo quello dell’approvazione del referendum costituzionale in Uruguay, che ha sancito il diritto costituzionale all’acqua, la crociata per la privatizzazione dell’acqua continua, nonostante l’opposizione dei movimenti.

In Ghana la Banca ha approvato nel 2004 un prestito di 103 milioni di dollari per il Ghana che prevede la privatizzazione delle reti idriche urbane nonostante tre anni di resistenza dei movimenti sociali locali. Secondo cifre fornite dal governo del Ghana, solo il 36 percento della popolazione rurale ha accesso ad acqua pulita e l’11 percento usufruisce di sistemi di igiene e fognature adeguate. Anche ad Accra l’acqua è scarsa, e nelle zone operaie della città una famiglia pagherebbe fino a 3000 cedis per usare 10 secchi d’acqua al giorno se i prezzi dovessero seguire le tariffe di mercato. Considerando che il salario minimo giornaliero è di 7000 cedis, è chiaro che l’alternativa al pagamento delle tariffe è per i più poveri l’uso di acqua di bassa qualità.

Si calcola che la privatizzazione dell’acqua imposta dalla Banca mondiale abbia portato ad un aumento del 95% delle tariffe e molte famiglie si sono trovate a spendere il 20% dei loro redditi per pagare le tariffe per l’uso dell’acqua.

Oltre l’inganno anche la beffa: il governo del Ghana si troverebbe costretto a ricorre a fonti esterne di finanziamento per raccogliere i 500 milioni di dollari da Banca mondiale, Banca Asiatica di Sviluppo o donatori bilaterali per sostenere gli investimenti delle imprese private, aumentando così il proprio debito estero. Almeno quattro multinazionali hanno espresso interesse: Biwater, Suez, Vivendi/Veolia, Saur, mentre i movimenti sociali riuniti nella Coalizione Nazionale contro la Privatizzazione dell’Acqua, non hanno intenzione di interrompere le loro mobilitazioni.

In Messico il programma PROMAQUA lanciato dal Presidente Vicente Fox ha ottenuto un finanziamento della Banca mondiale pari a 250 milioni di dollari a condizione di sviluppare joint-ventures con imprese private. Suez e Vivendi non si sono fatte attendere, ed oggi circa il 20 percento dei sistemi idrici municipali è in mano di privati.

In Indonesia la Banca Mondiale ha offerto nel 1998 un prestito di aggiustamento per le risorse idriche (WATSAL) per la ristrutturazione del settore idrico. Nel 1999 il governo accetta l’offerta e firma un contratto per 300 milioni di dollari da restituire in 15 anni dopo 3 anni di grazia. La condizione ultima per la concessione integrale del prestito era l’approvazione da parte del governo indonesiano della nuova legge sulle risorse idriche. Cosa che in effetti è accaduta nel febbraio 2004 nonostante le forti pressioni della società civile e dei movimenti sociali che avevano allungato sensibilmente i tempi dell’iter legislativo.

La legge sulle risorse idriche consegna di fatto l’acqua in mano alle imprese, limitando la quantità disponibile per legge alle comunità locali per uso tradizionale. La legge indonesiana privilegia gli usi commerciali dell’acqua, laddove le comunità locali si troveranno a dover pagare per usare l’acqua per scopi non commerciali. La legge poi assicura il trasferimento del controllo dell’acqua ai privati con conseguenze disastrose sull’accesso all’acqua da parte dei piccoli coltivatori e contadini, e sul loro diritto alla sovranità alimentare. Questa legge viola inoltre la Costituzione indonesiana del 1945 che garantisce l’equo diritto all’acqua e la responsabilità dello stato nel assicurarlo ai suoi cittadini.

MA QUALE MERCATO E MERCATO!

I casi illustrati in precedenza dimostrano che la privatizzazione comporta un aumento dei prezzi, e di conseguenza l’impossibilità delle classi più povere di accedere ad acqua di qualità. Che la via del mercato non sia la soluzione lo dimostra anche il fatto che proprio per massimizzare i profitti le imprese private concentrano la loro attenzione su utenti ad alto valore (principalmente il comparto agroindustriale), mentre i piccoli agricoltori perdono l’accesso all’acqua.

La necessità di massimizzare i profitti per il settore privato significa inoltre una rapida espansione nel livello della tariffazione e dell’installazione di contatori, mentre il miglioramento delle connessioni resta di scarsa priorità. Le imprese private poi seguono un approccio selettivo, secondo il quale vengono privilegiate le grandi città dove il reddito pro-capite è sufficientemente alto da permettere di pagare le tariffe. Molti poveri poi non hanno accesso a servizi in rete, pertanto il costo della connessione può essere altrettanto importante dei livelli tariffari, ed al pari di questi altrettanto proibitivo.

Altra forma di selettività riguarda la strategia di ridisegnare i confini delle aree geografiche oggetto del contratto così da includere città o distretti che possono assicurare massimi profitti. Così vengono tagliate fuori zone difficili da connettere quali le aree rurali oppure le baraccopoli.

Terza forma di selettività è una sorta di “spezzatino”, per dare al settore privato la parte più redditizia dell’operazione. In Guinea ad esempio il settore privato aveva la responsabilità di riscuotere le tariffe mentre l’impresa di proprietà pubblica si era accollata i costi di gestione e manutenzione dell’infrastruttura.

Questa dinamica dimostra l’incogruenza di una delle motivazioni principali per la privatizzazione , ovvero che i governi dovrebbero disfarsi delle imprese in perdita per risparmiare denaro .

In realtà, la privatizzazione ha portato i governi ad aumentare le loro uscite per incentivare gli investitori ad acquistare i loro servizi pubblici. Ad esempio tra il 1991 ed il 1998 il governo brasiliano ha guadagnato 85 miliardi di dollari attraverso la vendita di imprese pubbliche. Nello stesso periodo ha speso 87 miliardi di dollari per preparare le imprese alla privatizzazione.

E SE CIO’ NON BASTASSE…

La Banca Mondiale ed il Fondo Monetario ce la mettono proprio tutta con i loro piani di ristrutturazione, ma non basta. Ecco allora fiorire altre iniziative multilaterali, alle quali spesso la Banca mondiale compartecipa con il suo know-how e capacità di ricerca ed assistenza tecnica, al fine di convincere un settore privato riottoso a reinvestire nel mercato dell’acqua.

Nel 2002 il “World Panel on Financing Water Infrastructure” con a capo l’ex-direttore generale dell’FMI, Michael Camdessus, produsse in occasione del Forum Mondiale dell’Acqua di Kyoto 2003 un documento (da allora chamato “rapporto Camdessus”) contenente raccomandazioni intese stimolare un ritorno di interesse del settore privato nel business dell’acqua.

Obiettivo primo della Banca mondiale e delle imprese transnazionali sarà quello di creare le condizioni favorevoli per un aumento degli investimenti nelle infrastrutture idriche, incentivando misure volte a ridurre i rischi per le imprese, e creare nuovi strumenti finanziari di garanzia ed assicurazione dal rischio politico, attraverso l’uso di fondi pubblici. Le imprese occidentali potranno bussare bussare alle porte delle Agenzie di Credito all’Esportazione per assicurarsi – con fondi pubblici – dai rischi derivanti da un ipotetica ri-pubblicizzazione dei servizi idrici da parte dei paesi nei quali avrebbero voluto operare.

Secondo questa logica, qualora un governo decidesse di ripubblicizzare imprese dimesse o privatizzate, l’impresa straniera che ne subirebbe le conseguenze, potrebbe rivalersi sulla polizza stipulata con l’ Agenzia di Credito all’Esportazione. Questa a sua volta potrebbe rivalersi per il rimborso, sul governo del paese dove l’impresa aveva investito. Insomma, I cittadini di quel paese comunque si troverebbero a pagare un prezzo salato: con la privatizzazione vedrebbero aumentare le tariffe d’uso, mentre con la possibile ripubblicizzazione dei servizi subiranno le conseguenze nefaste di un aumento del debito estero del loro paese. Non c’è che dire, un circolo infernale, scatenato in nome della lotta alla povertà e del perseguimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio.

Con le sue strutture di sostegno al settore privato (IFC e MIGA), la Banca mondiale si sta adoperando al fine di implementare le raccomandazioni del rapporto di Camdessus. Tra queste vanno ricordate il “Municipal Fund” che fornisce “agli stati, ai municipi, ed alle istituzioni municipalizzate, strumenti finanziari innovativi, e l’accesso ai mercati di capitali” al fine di “rafforzare la loro capacità (sic!) di fornire servizi essenziali, quali l’acqua ed altri, migliorando l’efficienza ed il controllo democratico…” Con questo Fondo , la Banca prova a by-passare i governi e fare affari direttamente con le autorità locali.

Tra le altre iniziative propose dal rapporto Camdessus, rientrano la “Backstopping liquidity facility” il cui obiettivo è quello di proteggere gli investitori privati mitigando i rischi derivanti dalla fluttuazione dei tassi di cambio. Sono state poi create altre due strutture, DevCo che sostiene programmi di privatizzazione attraverso la preparazione delle procedure di appalto sostenuta con un fondo rotativo e GuarantCo che assicura l’emissione di titoli azionari da parte delle autorità locali per privatizzare le proprie municipalizzate. Anche la MIGA (Multilateral Investment Guarantee Agency) sta lavorando a nuovi strumenti assicurativi e di garanzia per mitigare i rischi finanziari correlati alle operazioni di privatizzazione.

Vale la pena di sottolineare che imponendo la privatizzazione dei servizi pubblici, la Banca mondiale di fatto agevola l’adesione alle condizioni previste dall’accordo GATS, quali la clausola della nazione più favorita. Infatti ogni servizio pubblico privatizzato in conseguenza delle condizioni fissate dai Piani di Aggiustamento Strutturale automaticamente viene soggetto alle regole previste dai GATS. Sono infatti esenti dai GATS solo il servizi resi “nell’esercizio dell’autorità governativa – non su base commerciale né in competizione con uno o altri erogatori di servizi”.

La Banca mondiale poi svolge attività di assistenza tecnica, con la Public-Private Infrastructure Advisory Facility nel luglio 1999, con sede negli uffici centrali della Banca a Washington,o con il Water and Sanitation Program, il cui scopo è quello di organizzare corsi di formazione per giornalisti e per decisori politici al fine di assicurare il sostegno mediatico e politico ai programmi di privatizzazione.

Nel 1994 la Banca ha poi creato il World Water Council che riuniva UNDP, FAO, UNEP, OMS, Vivendi, Suez, ed alcuni paesi quali Canada, Giappone, Francia, Olanda, al fine di sviluppare una visione mondiale sull’acqua. L’ultimo forum organizzato a Kyoto nel 2003 il prossimo in Messico nel 2006. Inoltre la Banca ha sostenuto la creazione della Global Water Partnership (una sorta di partenariato pubblico-privato). Nel 1998 venne creata la World Water Commission che produsse alcuni documenti, la “World Water Vision”, il rapporto “From Vision to Action” ed il rapporto “Water Security”,

CONCLUSIONI

Di fronte a queste evidenti responsabilità delle istituzioni finanziarie internazionale, i movimenti italiani dovranno, accanto al sostegno attivo alle comunità locali, ed ai movimenti sociali che si oppongono alla privatizzazione dell’acqua, aumentare la pressione sulla Banca mondiale e sul Fondo Monetario Internazionale. Questa è la linea perseguita dalle campagne e dalle lotte di resistenza dei movimenti contadini, indigeni e di base che da decenni si oppongono agli investimenti delle grandi transnazionali o ai progetti e programmi sostenuti dalle banche multilaterali di sviluppo.

Nello specifico, andrà sollecitata l’adozione di direttive e posizioni politiche volte a escludere la privatizzazione diretta (quale quella imposta dai piani di aggiustamento strutturale o dalle condizionalità imposte per la cancellazione del debito) ed indiretta (ad esempio attraverso i contratti di costruzione delle grandi infrastrutture idriche, che risultano – di fatto – nella privatizzazione sul controllo delle risorse alle imprese straniere, in virtù di contratti di project financing) .

Più in generale andranno elaborate linee guida per i rappresentanti italiani presso le Istituzioni Finanziarie Internazionale che sanciscano l’abbandono dell’enfasi sulla liberalizzazione e la privatizzazione del settore. Riconoscendo pienamente il diritto umano all’acqua, Banca mondiale e Fondo Monetario dovranno rimuovere ogni condizione esplicita o implicita che preveda forme di partenariato pubblico-privato per l’accesso ai finanziamenti da parte dei governi beneficiari, nonché di ogni condizione implicita o esplicita che preveda il recupero pieno dei costi dagli utenti domestici. Andranno poi interrotti tutti quei prestiti che promuovono la riforma del settore idrico a livello nazionale e che proteggono e permettono la partecipazione del settore privato.

Le alternative alla privatizzazione esistono, e funzionano. In molte città e villaggi i cittadini si organizzano, sviluppano e mettono a punto modelli partecipativi, recuperano sistemi tradizionali, e resistono all’invasione del mercato. Si tratta pertanto di costruire percorsi condivisi per aprire e consolidare spazi di agibilità politica che permettano la costruzione di pratiche alternative, ed allo stesso tempo operare affinché le istituzioni finanziarie internazionali vedano progressivamente ridursi il loro ruolo. Ciò non sarà possibile se non attraverso un approccio critico, radicale e radicato sul territorio e nei movimenti sociali e comunità locali che chiedono giustizia ed equità. Attraverso l’acqua infatti si può declinare un nuovo modello di cittadinanza cosmopolita globale , quello che Vandana Shiva chiama democrazia ecologica ed economica “giacché democrazia non è semplicemente un rituale elettorale, ma il potere delle persone di forgiare il proprio destino, determinare in che modo le loro risorse naturali debbano essere possedute ed utilizzate, come la loro sete vada placata”.

Francesco MartoneSenatore della Repubblica, membro del Comitato Eletti ed Elette per un Contratto Mondiale per l’Acqua – e-mail: f.martone@senato.it – www.ecogiustizia.splinder.com

BIBLIOGRAFIA

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