a cura di Pino Cosentino
Mentre il panorama continua a incupirsi, cresce la voglia di scorgere una luce di speranza, antidoto alla depressione e sprone all’azione.
Il governo del popolo (non “per il popolo”) appare un miraggio che si allontana ogni giorno, diviene sempre più difficile credere che la corrente possa invertirsi. Ma ciò che più demoralizza e demotiva è l’impossibilità di definire in positivo quello che vogliamo:
[…] Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Questi famosi versi di Montale, uomo alieno da impegni politici, sebbene vigorosamente antifascista, basterebbero tuttavia a fare di lui un nostro “compagno di strada” (ad honorem).
Questa condizione, quanto poeticamente è di sicuro impatto e gradimento, tanto è devastante politicamente. Se ci si allontana da obiettivi immediati, se si indaga sul punto non dico di arrivo, ma di svolta, quello che si ottiene è “qualche storta sillaba e secca come un ramo”.
Ma questo è il passato. Sì, ma un passato che non passa.
Oggi esistono i materiali per ricostruire un’immagine di futuro, bisogna con pazienza metterli insieme, seguendo percorsi “nuovi”, ma che in realtà hanno alle spalle già una lunga incubazione e maturazione.
Le delusioni del passato sono una motivazione del “pensiero debole” in cui siamo immersi. Ma la realtà è un’altra: il postmoderno, con il suo rifiuto di ogni pretesa sistemica, ha vinto perché il capitalismo ha alla fine prevalso sui suoi avversari (veri o presunti che fossero), conseguendo un trionfo totale, non solo nei fatti, ma anche nelle coscienze: l’essere determina il pensiero, non viceversa. La buona notizia, verrebbe da dire, è che l’essere (il capitalismo) è una realtà sommamente instabile e prepara da sé le condizioni del proprio superamento, se non fosse che il prezzo da pagare in termini di vite umane e di devastazioni ambientali è già ora altissimo e intollerabile.
Possiamo, e quindi dobbiamo, cominciare a delineare un modello di società e di Stato possibile, che abbia un grado di coerenza sistemica almeno pari a quello capitalistico? Sapendo già che nessun sistema può essere perfettamente omeostatico?
In un telefilm americano la risposta sarebbe: negativo!
L’immagine di futuro non può e non deve essere un modello, ma una strategia.
Detto questo, mi pare necessario abbandonare il terreno della pura speculazione, per azzardare un ragionamento politico concreto.
Gli ostacoli da superare, per chi vede la democrazia partecipativa come la chiave di ogni possibile strategia volta a stabilire il governo del popolo, sono essenzialmente due: come può un aggregato così numeroso ed eterogeneo – il popolo – governare effettivamente? Il conflitto sociale come si colloca in un quadro che appare tutto politico-istituzionale?
Il primo punto richiede di ridisegnare da cima a fondo il sistema politico, affiancando il concetto di partecipazione ai processi decisionali con quello di autodeterminazione. Il secondo lo vedo (e mi sento controcorrente rispetto all’impostazione prevalente nell’area “antisistema”, ancora dominata dall’idea della centralità del conflitto tra datori di lavoro e lavoratori dipendenti) subordinato al primo. Il nemico non è il singolo datore di lavoro, ma un sistema il cui fulcro è politico, nonostante appaia il contrario. Si può misurare il danno causato dal facile e adialettico schema engelsiano struttura-sovrastruttura, così adatto alla forma mentis corrente, abituata a pensare in termini che escludono il divenire, o lo riducono a una successione di fotogrammi. Eppure già la definizione marxiana di capitale (un “rapporto sociale”) apre la strada alla comprensione della natura squisitamente politica del dominio del capitale (in termini correnti oggi, dei “mercati”). Cosa che Lenin aveva ben compreso, dando però la risposta sbagliata.
La natura politica del dominio del capitale oggi è più evidente che mai. È un sapiente dosaggio di forza e consenso, in cui l’inferiore obbedisce al superiore perché effettivamente è inferiore, come cultura e ruolo sociale.
Oggi la leva del cambiamento è costituita dalla crescita culturale del popolo, un processo molto complesso in cui convergono dimensione individuale e dimensione collettiva, virtuale e reale, esperienze politiche (in senso tecnico) ed esperienze comunitarie, un mutamento profondo del rapporto con l’ambiente naturale e un altrettanto profondo assestamento del rapporto con il proprio essere naturale, il proprio corpo, la propria sessualità.
Ma il fattore dinamico fondamentale è e resta quello politico in senso stretto: partecipazione e autodeterminazione.
Per la prima volta non esaurisco l’argomento, ma rimando la continuazione, con esempi concreti, al prossimo articolo.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 23 di Gennaio-Febbraio 2016 “Verso una Nuova Finanza Pubblica e Sociale: Comune per Comune, riprendiamo quel che ci appartiene!“.