di Marco Bersani – Articolo pubblicato su il manifesto del 14 ottobre 2023 per la rubrica “Nuova finanza pubblica”
La finanziarizzazione è la cifra che definisce il capitalismo contemporaneo e sottintende l’assoluta predominanza della finanza sulla produzione. L’esperienza delle lavoratrici e dei lavoratori dell’ex-Gkn di Campi Bisenzio ne è l’esempio paradigmatico.
Dopo essere stata per decenni un sito produttivo di componenti per automobili per la Fiat, nel 2018 Gkn viene comprata da Melrose Industries, una società quotata in Borsa che vede fra i maggiori azionisti Capital Research & Management, parte del conglomerato finanziario Capital Group; Select Equity Group, società finanziaria con un portafoglio di 30 mld di dollari; Vanguard Group e Blackrock, due dei più grandi fondi finanziari del pianeta.
L’obiettivo di questi soggetti finanziari non è mai quello di realizzare profitti attraverso un processo produttivo, ma con la capitalizzazione in Borsa e l’emissione di obbligazioni. Questi signori entrano nel capitale delle aziende al solo scopo di ristrutturarle per venderle prima possibile a un prezzo più alto di quanto hanno pagato.
È così che il 9 luglio 2021, agli oltre 500 lavoratrici e lavoratori della Gkn viene comunicata per email la chiusura della loro fabbrica per delocalizzazione della produzione. La straordinaria lotta messa in campo nel corso di questi oltre due anni ha impedito che, così come per altre analoghe vicende, anche per Gkn si compisse il destino previsto.
Non solo la fabbrica è stata occupata, ma intorno alla stessa è sorta una comunità di lotta, capace di cura e di trasformazione, che, oltre alla resistenza, è stata capace di mettere in campo un progetto di reindustrializzazione, riconvertendo in direzione ecologica e sociale la produzione.
Nel frattempo, nel dicembre 2021, la proprietà -costo 1 euro- è passata alla QF di Francesco Borromeo, che si autodefinì “esperto in riconversioni industriali”, nonché “capace di profondo ascolto nei confronti degli operai”. Salvo porla in liquidazione quindici mesi dopo, senza aver presentato alcun piano industriale, né coinvolto alcun nuovo investitore, e accusando gli operai “di aver fatto fallire QF per espropriare lo stabilimento e disporne a proprio uso e piacimento (!)”.
Peccato che nel frattempo, un nuovo risiko societario sia entrato in campo: il 2 ottobre scorso, infatti, Pvar srl, che controllava il 100% di QF, ha ceduto il 50% a Tuscany Industry srl, società con un profilo fortemente legato al settore immobiliare, a sua volta controllata al 100% da Monte dei Paschi di Siena, il cui 64% è posseduto dal Ministero dell’Economia e Finanza.
Si profila sempre più chiaramente l’obiettivo della desertificazione industriale dell’area con scopi immobiliari, dentro una tenaglia finanziaria nella quale gioca un ruolo attivo lo stesso governo. Il tutto paradossalmente giustificato con l’ideologia della transizione ecologica per cui vengono chiuse fabbriche legate a processi produttivi che non hanno futuro, e senza prendere in alcuna considerazione il piano proposto dal basso dai lavoratori e dalla comunità solidale, che prevede esattamente un diverso futuro produttivo, ecologicamente e socialmente orientato.
Che fare, dentro questo quadro? Due battaglie diventano dirimenti: la prima è il sostegno concreto all’azionariato popolare lanciato dalla Soms Insorgiamo (https://insorgiamo.org/); la seconda è una battaglia politica che dovrebbe vedere movimenti ecologisti, associazionismo solidale, sindacati e forze politiche tutte insieme a rivendicare la costituzione di una banca pubblica, socialmente controllata, per la riconversione ecologica e sociale della produzione agricola e industriale dell’intero Paese.
Se non ora, quando?