A volte ritornano: la trappola del Fondo

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di Matteo Bortolon, Cadtm Italia*

articolo pubblicato su il manifesto del 21 ottobre 2023 per la Rubrica Nuova finanza pubblica 

Foto CC, fonte: World Bank Photo Collection

“Aggiustamento strutturale? Era di prima del mio mandato, ed io non so nemmeno cosa sia”. Così rispondeva Christine Lagarde, allora direttrice del Fondo Monetario Internazionale nel 2014, ad una domanda durante una conferenza stampa.

Il messaggio, al di là della forma paradossale, era che si voltava pagina completamente. Il FMI nel corso dei decenni scorsi era diventato sinonimo di disgrazie e flagelli nei paesi del Sud globale, e l’aggiustamento strutturale la sua espressione più tipica.

La premessa di tutto ciò è che quando le istituzioni finanziarie internazionali vennero create avevano la missione di promuovere la stabilità ed evitare le crisi. Ma quando queste arrivarono vennero meno al loro mandato.

Le monete non sono tutte uguali, e la teoria che le dipinge come mero velo sui rapporti economici è grossolanamente errata. C’è una gerarchia delle valute, perché buona parte del commercio internazionale richiede pagamenti in “moneta pregiata”, cioè emessa da paesi ricchi e potenti. In tal modo essa incorpora la forza dello Stato che vi è dietro, incorporandola nella sua funzionalità. Oggi il dollaro rimane fondamentale, nonostante che soprattutto gli eventi seguiti alla guerra in Ucraina vadano nella direzione di scalfire tale egemonia. Per determinati beni nel commercio internazionale è necessario avere i “verdoni” statunitensi.

Il modo per procurarsi dollari qual è? In primo luogo esportare verso il mercato globale. In alternativa occorre prenderli in prestito. Ma chi li presta? Qui entrano in gioco i vari soggetti del mondo finanziario: banche d’affari, fondi speculativi, società finanziarie, e simili.

Storicamente molti paesi del Sud globale hanno avuto difficoltà a costruirsi un forte settore di manifattura, e debbono cavarsela vendendo materie prime: agricoltura, minerali, beni energetici (petrolio, gas). Se per qualche motivo non vi riescono, la carenza della valuta nordamericana è un grosso guaio, perché non possono procurarsi beni essenziali. Se un paese entra in questa difficoltà, chi gli presta i soldi ne può approfittare per imporre tassi usurai. È un principio fondamentale che il debito di qualcuno è il credito di qualcun altro; in tal modo le necessità di uno Stato di traducono in una miniera d’oro – anche letteralmente! – per gli investitori internazionali, che possono sedersi su una rendita di profitto bella e garantita.

Come ultima risorsa ci sono il FMI e la Banca Mondiale; cosa che i paesi più poveri (e non solo loro!) cercano di evitare ad ogni costo, sia perché è una implicita ammissione di essere in brutte acque, il che rende ancora meno affidabili presso gli investitori che vorranno tassi ancora più alti; sia perché i nuovi creditori impongono le loro condizioni. È qui che scatta il famigerato Programma di Aggiustamento Strutturale (SAP), un insieme di ricette lacrime e sangue che spinge tutte le riforme neoliberiste.

Nonostante le rassicurazioni di Lagarde, una analisi del 2020 degli studiosi Isabelle Ortiz e Matthew Cummins ha passato al setaccio 779 rapporti del FMI risalenti al 2010-2019, e hanno scoprendo che sotto pressione delle raccomandazioni del Fondo i responsabili della politica economica hanno per lo più fatto austerità, in specie: riduzioni dei salari, riduzione di sovvenzioni per carburante e alimenti; diminuzione delle pensioni; riforme del mercato del lavoro, riforme in campo sanitario, definanziamento o aumento dei costi a carico dei pazienti; aumento delle tasse su beni e servizi essenziali; privatizzazioni. Tutto come un tempo.

 

Ovviamente tali misure deprimono l’economia e riducono le entrate fiscali – essendo la tassazione dei grandi patrimoni non particolarmente amata in questi ambiti – rendendo necessario un nuovo indebitamento solo per saldare i vecchi debiti.

Le politiche della principali banche centrali dal 2021, soprattuto della FED, in poi hanno portato a una robusta rivalutazione del dollaro rispetto ai paesi più impoveriti. In tal modo le difficoltà di pagamento diventano importanti: il Fmi considera 36 paesi a rischio di insolvenza (e frattanto qualcuno ha fatto default, come lo Zambia nel 2020). Nel suo rapporto sui settori esteri (External Sector Report, giugno 2023) il Fondo adotta un tono insolitamente accorato: “Nelle economie emergenti, gli effetti del dollaro forte si diffondono attraverso i canali commerciali e finanziari. I loro volumi commerciali reali diminuiscono più bruscamente, con le importazioni che diminuiscono il doppio delle esportazioni. Le economie di mercato emergenti tendono anche a soffrire in modo sproporzionato rispetto ad altri parametri chiave: peggioramento della disponibilità di credito, diminuzione degli afflussi di capitali, politica monetaria più restrittiva sull’impatto e maggiori cali dei mercati azionari”. Siamo in una nuova crisi del debito.

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