Europa e repressione del conflitto sociale

Condividi:

Loading

di Italo Di Sabato (Osservatorio sulla repressione)

Le rigide leggi finanziarie dell’Unione Europea hanno contribuito alla realizzazione di un’idea di Europa concepita perlopiù come sistema-azienda, la cui rispettabilità dei membri dipende dalla capacità di far quadrare i conti, piuttosto che dal benessere dei suoi abitanti. Il dibattito intorno alle scelte politico-economiche viene delegato a chi ha le competenze tecniche per mettere in pratica «i meccanismi del sociale razionalizzato, meccanizzato e finalizzato» come li ha definiti Michel Maffesoli. La gioventù europea, che sembrava dover sorgere all’alba del nuovo millennio, ha visto minate alle radici le proprie basi economiche e culturali, mentre la flessibilità del lavoro ne ha sancito la precarietà esistenziale e la vita nomade, seppur scampata ai controlli interni di frontiera. La non-corrispondenza fra governance e cittadini europei ha posto in essere una crisi strutturale della rappresentanza che si amplifica nel tempo.

L’evidente torsione neoautoritaria in cui l’Unione Europea sta involvendo non è accidentale, non è causata da oscure forze esogene o complessi processi sociopolitici. È la cifra stessa della fase in cui siamo entrati, quella compiutamente ordoliberale della governance dell’Unione. Una fase in cui al neoliberismo si aggiunge uno stato Leviatano che governa in modo poliziesco il processo di espropriazione dal basso verso l’alto, dai molti ai pochi e piega a proprio piacimento la democrazia, mentre militarizza i territori e le vite.

Una Unione Europea che si riduce ad un insieme di dispositivi di disciplinamento e controllo. Lo stato d’emergenza permanente salda il diritto penale del nemico allo stigma del debito e della colpa, alla condanna di forme di vita che vengono considerate non “decorose” o semplicemente disfunzionali alla messa a valore capitalista. A completare il quadro dei mutamenti dei dispositivi repressivi si potrebbe aggiungere il diritto amministrativo e del lavoro che diventano sempre più diritto commerciale; come anche la riduzione dello spazio di agibilità per esercitare forme di conflitto nei luoghi di lavoro (restringimento del diritto di sciopero); ma anche uno slittamento totale dei poteri verso Prefetture, Questure e Municipalità, istituzioni poliziesche e territoriali, fuori dalla giurisdizione ordinaria che quindi non prevedono processi, possibilità di appello, possibilità di difesa.

Vi è, quindi, una deriva biopolitica del potere contemporaneo. Aveva ragione Deleuze: ”lo stato di eccezione contemporaneo diventa direttamente Stato del Controllo“. Cresce, quindi, la recrudescenza autoritaria di tutte le segregazioni che colpisce innanzitutto gli attivisti sociali. È lo Stato Penale Globale, uno smantellamento dello Stato di diritto, tanto nella forma che nel contenuto. Una subordinazione del potere giudiziario all’apparato di polizia. Non si tratta solo di una sospensione di diritto e di una restrizione dei meccanismi di tutela delle libertà fondamentali in nome dell’emergenza, ma piuttosto la peculiarità delle ultime legislazioni speciali risiedono nella loro portata generale che colpiscono la popolazione nel suo complesso. Un reale stravolgimento del diritto penale e una trasformazione globale del rapporto tra società e Stato.

Una deriva sicuritaria europea, che ha preso forma in condizioni di assoluto deficit democratico. Innovazioni di enorme portata dal punto di vista delle politiche penali e di controllo sociale che sono state prodotte senza che le istituzioni della democrazia rappresentativa fossero in grado di esercitare alcuna funzione di controllo o di indirizzo. Ad esempio, gli accordi di Shengen hanno rivoluzionato il regime di circolazione delle persone avviando di fatto una generalizzazione dello status di clandestinità, oppure l’istituzione dell’Eurogendfor, i cui poteri – inizialmente limitati ad alcuni specifici ambiti di intervento – tendono ad ampliarsi sempre più, senza che questa nuova polizia europea sia soggetta a un reale controllo giurisdizionale da parte della Corte di Giustizia.

La totale mancanza di dibattito sui processi decisionali su cui si è andato a definirsi il nuovo scenario penale europeo, l’assenza di informazioni, la scarsa accessibilità dei documenti ufficiali, l’esclusione intenzionale di gruppi associazioni e organizzazioni attive sul terreno dei diritti sociali ha fatto sì che la percezione di quanto stava accadendo fosse quanto mai astratta, lontana dall’esperienza diretta, influenzata dalle manipolazioni mediatiche e quindi al riparo da una critica diffusa. Dall’altra parte, i soggetti contro i quali il nuovo orizzonte di emergenza andava delineandosi – prima di tutto i migranti e i rifugiati, sempre più assimilabili a potenziali terroristi, ma anche i movimenti antiliberisti (si pensi a quello che è accaduto a Genova durante il vertice del G8 nel luglio 2001, o ad Amburgo durante il vertice del G20 luglio 2017) – sono stati resi oggetto di una sovrarappresentazione mediatica che ha contribuito a delineare la figura dei nemici pubblici contro i quali mobilitare un opinione pubblica rancorosa.

Determinazione dei confini, istituzione di un potere punitivo fortemente selettivo, costruzione di nemici pubblici, legittimazione populistica delle derive razziste e liberiste, politiche del controllo sono gli elementi principali messi in campo dall’Unione Europea per costruire la sua “fortezza” e facendo della sicurezza uno dei motivi ispiratori e uno dei fondamenti della nuova cittadinanza. Con tutta la sua retorica su “democrazia liberale” e “libertà”, l’Europa è quietamente diventata un focolaio di repressione politica.

Tutto a dimostrazione di come la volontà dei diversi governi Europei è di reprimere le realtà sociali che rivendicano il diritto di scegliere come vivere, dove vivere e a quali condizioni lavorare. Viene da chiedersi se esista ancora, nell’Europa della crisi, uno spazio che non sia in qualche modo interessato dall’eccezione e, anche quando si intenda questo termine come semplice sinonimo di eccezionalità, esso ha delle ricadute importanti in termini di diritto. La sfera del giuridico non esprime solo tecnica ma uno degli aspetti più profondi del politico: la continua ridefinizione dei confini del lecito e dell’illecito, della legittimità e dell’illegittimità, quella sorta di pendolo che è la legalità. Sappiamo che la catena di comando è più complessa e molte volte le direttive che animano le legislazioni nazionali viaggiano dal centro dell’Europa per irradiare i singoli ordinamenti nazionali. La sfera del giuridico è un terreno di conflitto dove però ad essere attrezzata è solo una delle parti. Non ci si può esimere dal costruire un intervento politico sulla giuridicità. Aprire una discussione è un tentativo di definire un orizzonte prim’ancora che una soluzione concreta: elaborare una strategia che individui il nodo centrale dello scontro che viene a costituirsi, ovvero l’attacco alla legittimità stessa di un dissenso fattivo, alla possibilità che i movimenti possano esistere e mettersi di traverso, inceppando un sistema sempre più oligarchico. Non c’è critica dell’attuale società liberista che possa aver successo senza una contemporanea rimessa in discussione dell’apparato penale che la sostiene. Per farlo bisogna scardinare l’impalcatura giustizialista costruita negli ultimi decenni, perché senza un reale cambio di paradigma politico che si liberi una volta per tutte dell’ideologia giudiziaria e penale non si riuscirà mai a dare legittimità alle lotte sociali e tutte le vertenze avrebbero sempre le ali piombate.

Foto: “Caschi blu” di Federico Filipponi (CC BY-NC-ND 2.0 DEED)

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 52 di Febbraio-Marzo 2024: “Europa: a che punto è la notte?

Se sei arrivato fin qui, vuol dire che ti interessa ciò che Attac Italia propone. La nostra associazione è totalmente autofinanziata e si basa sulle energie volontarie delle attiviste e degli attivisti. Puoi sostenerci aderendo online e cliccando qui . Un tuo click ci permetterà di continuare la nostra attività. Grazie"