Esiste ancora l’Europa?

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di Marco Bersani  (Attac Italia)

Una transizione drammatica

Come già accaduto nella storia del capitalismo, siamo entrati in una fase di transizione: sta giungendo infatti a conclusione il ciclo capitalistico della finanziarizzazione basato sulla globalizzazione dei mercati, che ha attraversato il pianeta nell’ultimo mezzo secolo.

Semplificando, potremmo dire che, mentre nei secoli dal XVI al XVIII il capitalismo si è caratterizzato come mercantile, nel XIX secolo e fino alla Seconda guerra mondiale la sua cifra è stata specificamente coloniale; a questa, nel dopoguerra si è sostituita la fase del capitalismo di Stato, basata sul compromesso capitale-lavoro, travolta infine dal capitalismo finanziarizzato e dalla globalizzazione liberista.

Oggi, anche quest’ultimo ciclo arranca, dentro le plurime crisi che lo attanagliano, giunte al pettine contemporaneamente: siamo, infatti, nel pieno di una drammatica crisi ecologica e climatica, dentro una crisi economico-finanziaria che perdura, immersi in una disuguaglianza sociale che non ha precedenti e dentro una crisi verticale della democrazia.

“La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”, scriveva Antonio Gramsci nel 1930 dal carcere. Ed è esattamente la fase di transizione in cui ci troviamo, nella quale, non a caso, è stata rimessa al centro la guerra come dimensione ordinaria nell’esistenza delle persone, nell’organizzazione della società e nelle relazioni internazionali, fino alla possibilità, oggi molto meno remota, di una terza guerra mondiale.

Quale sarà l’esito di questa fase di transizione è impossibile prevederlo: il capitalismo sta cercando di aprire un nuovo ciclo, da una parte riorganizzando i rapporti di forza geopolitici attraverso le guerre attualmente in corso e/o in preparazione; dall’altra, aprendo una nuova fase di accumulazione basata ancora sul primato della finanza, ma questa volta innestata sull’innovazione tecnologica digitale e su una narrazione mercatista come soluzione alla crisi climatica.

 

Europa al capolinea

Un dato inoppugnabile, all’interno di questa analisi, è la fine dell’Europa, per come l’abbiamo conosciuta e sotto diversi aspetti.

L’Unione europea, nata dentro un profilo liberale, portava tuttavia con sé alcune caratteristiche di originalità, dovute, da una parte, alla propria collocazione geopolitica e dall’altra ai cicli di lotte sociali che l’avevano attraversata.

L’essere al confine della guerra fredda e al centro dello scontro ideologico fra capitalismo e socialismo reale ha contribuito in Europa a moderare le spinte selvagge del primo, per attenuare l’attrattività delle suggestioni del secondo (purtroppo, rivelatesi nel tempo quasi solo illusioni).

Mentre il conflitto sociale che ha attraversato i decenni ’60-’70 del secolo scorso ha espanso notevolmente l’area dei redditi, dei diritti sociali e della democrazia in tutte le fasce della popolazione.

In conseguenza di questi fattori, è stata proprio l’Europa a divenire il continente del compromesso fra capitale e lavoro, del welfare come diritto e dell’ipotesi politica della socialdemocrazia, come terza via rispetto alle alternative esistenti sul campo.

L’Unione europea, con tutte le ambiguità e contraddizioni possibili, era nata anche come anelito (per quanto astratto) alla pace e alla convivenza fra i popoli europei, tragicamente attraversati da due devastanti guerre mondiali.

Con l’avvento delle politiche neoliberali, l’Europa ha smarrito sé stessa in maniera probabilmente irreversibile.

Se la prospettiva della pace era stata già compromessa nel 1999 con i bombardamenti su Belgrado, oggi la situazione è precipitata dentro una guerra infinita all’interno dell’Europa e dentro un genocidio in Palestina, entrambi conflitti che vedono l’Europa priva di una autonoma posizione e con una politica estera interamente delegata alla Nato, la quale sta spingendo il Continente verso un’economia di guerra, una cultura bellicista e la repressione di ogni conflitto sociale.

Le politiche di austerità, attivate grazie alla ideologica narrazione sul debito pubblico, hanno fatto macerie di ogni welfare, consegnando diritti del lavoro, diritti sociali, beni comuni e servizi pubblici all’assalto dei grandi interessi finanziari.

La prosperità di un’Europa unita si è tradotta in 95,3 milioni di persone che vivono a rischio povertà o esclusione sociale, pari al 21,6% dell’intera popolazione.

E persino le timide posizioni in materia ambientale si ritrovano progressivamente triturate dentro una narrazione che sembra non poter fare a meno della divinità una e trina di crescita-competitività-concorrenza, in un contesto dove il profitto pare l’unico motore sociale e la solitudine l’unica dimensione esistenziale.

Persa la propria originalità di modello sociale, poteva l’Europa mantenere intatto l’altro versante di quel modello, ovvero la democrazia? Già, perché la crisi della democrazia è andata ben oltre le naturali critiche alla sua imperfezione, alla sua non sostanzialità, alla parzialità della sua inclusione: oggi la democrazia ha persino smesso di essere desiderabile, aprendo la strada a populismi, sovranismi e nuovi fascismi dentro la politica, la cultura e la società.

Siamo ormai un’Europa fortezza, debole con i forti e feroce contro i deboli, lasciati naufragare nei barconi delle loro speranze o imprigionati nei nuovi lager disseminati sui territori europei e mediterranei.

 

Un altro orizzonte

Non vi è dubbio che l’unica possibilità di fermare la deriva verso l’oscurantismo e l’imbarbarimento risieda nella ripresa delle lotte e delle mobilitazioni sociali.

E se l’attuale Unione europea va considerata come irriformabile, non bisogna ”buttare via con l’acqua sporca anche il bambino”, l’Europa è la dimensione necessaria per sperare di invertire la rotta e per uscire dalla fase di transizione con un esito differente e un’alternativa di società.

Cosi come non si può guardare la realtà ”con il torcicollo”, auspicando un nostalgico ritorno all’epoca del compromesso capitale-lavoro. Non si può pensare di aprire nuovi spazi rifugiandosi nella dimensione dello Stato nazionale, ormai profondamente mutato, nelle proprie funzioni e nel proprio ruolo, da decenni di politiche di liberalizzazione e di privatizzazione.

Non va inoltre dimenticato come la portata di ciascuna delle crisi sopra descritte sia addirittura planetaria e come, di conseguenza, nessuna di esse possa essere affrontata seriamente senza una dimensione perlomeno continentale.

Su questo terreno, è inutile sottolineare il grande ritardo dei movimenti sociali, i quali, dopo la fertilissima stagione altermondialista di inizio millennio, non sono più stati capaci di mantenere una stabile dimensione europea di confronto, coordinamento e costruzione di mobilitazioni.

Sono almeno quattro gli orizzonti che richiedono questo salto di qualità:

  1. Europa continente di pace: costruire una mobilitazione contro la guerra che, al di là del chiedere l’immediato cessate il fuoco per tutti i conflitti in corso, sappia opporsi alla penetrazione della guerra nell’economia, nella società, nella cultura e nella democrazia;
  2. Europa fuori dalla trappola del debito: costruire una mobilitazione contro le politiche di austerità, il patto di stabilità e il Trattato di Maastricht, che hanno di fatto costituzionalizzato il neoliberismo a livello continentale;
  3. Europa della conversione ecologica: far fruttare tutte le battaglie ecologiste messe in campo dalla nuova generazione di attiviste e di attivisti, per farle convergere dentro un orizzonte altro rispetto all’ideologia della crescita, al fideismo della concorrenza, al diktat della competizione;
  4. Europa dello spazio civico e dell’inclusione: costruire una vertenza per la conquista di una nuova democrazia, basata sulla partecipazione dal basso e l’inclusione delle comunità territoriali, capace di immaginare un futuro che sappia andare molto oltre l’indice di Borsa del giorno successivo.

Perché tutto questo sia possibile, occorre tuttavia un ulteriore salto di qualità: iniziare a immaginare la possibilità di un orizzonte diverso e collocare le lotte, le esperienze e le pratiche dentro quell’orizzonte.

Non è più tempo di profitti e di guerre: oggi è tempo di cura di sé, delle altre e degli altri, del vivente e del pianeta e di lotta collettiva e senza quartiere contro coloro che tutto questo impediscono.

Dobbiamo tornare a immaginare la fine del capitalismo, invece di rimanere sgomenti ad aspettare la fine del mondo.

Foto: “G20 green bandana 2” di Matthew Fells (CC BY-NC 2.0 DEED)

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 52 di Febbraio-Marzo 2024: “Europa: a che punto è la notte?

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