Diritto alla salute e sanità pubblica

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di Fulvio Aurora (Medicina Democratica)

Il diritto alla salute è riconosciuto dalla Costituzione come diritto fondamentale. La salute e la sanità sono due condizioni differenti, però fra loro c’è un rapporto. La salute è una condizione esistenziale che non esprime semplicemente assenza di malattia, ma benessere, stato felice, voglia di agire e di vivere. La sanità è una modalità organizzativa ed attiva per restare in salute o per recuperare la possibilità di esserlo. Non confondiamo i due concetti.

La Costituzione è del 1948, ma ci sono voluti 30 anni prima di avere una legge, la 833 , istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale che sanciva il diritto alla salute, nella quale veniva abbandonato il sistema assicurativo stabilendo un’organizzazione sanitaria pubblica, universale, gratuita in quanto fondata sulla fiscalità generale e basata su 3 principi cardine: prevenzione, partecipazione e programmazione. Per la verità la sua attuazione non fu facile, non solo per i retaggi del passato, ma a causa di una serie di misure non adeguate, di una contestazione sottile di chi aveva interessi diversi da difendere.

Il fulcro della Riforma era l’Unità Sanitaria Locale, già definita tale nel Comitato di Liberazione Nazionale del 1945. Il significato era chiaro: si doveva dare una risposta di salute, sul territorio, vicino al cittadino, dando a tutti i cittadini una risposta relativa ai loro bisogni, su una base di perfetta uguaglianza. La riforma sanitaria fu il frutto delle lotte operaie e sindacali della fine degli anni 60, “nonostante i limiti e le contraddizioni” presenti, come affermato in un documento scaturito da un grande congresso sindacale CGIL-CISL-UIL del febbraio 1979. Limiti e contraddizioni erano stati espressi nella copertina del n. 14/15 della rivista Medicina Democratica (aprile 1979) che rappresentava una pietra tombale con una scritta significativa: “Riforma Sanitaria – In memoriam  – 1978 (nascita)- 1978 (fine)”. Nell’articolo specifico veniva infatti sottolineato che il numero di rinvii (ad altre leggi, decreti, disposizioni) e soprattutto il mantenimento del ricorso al privato con i convenzionamenti, minavano alla base gli stessi fondamenti della riforma. Purtroppo la previsione di MD di allora si è verificata oggi più di ieri, ed è per questo che oggi più di ieri non abbiamo rinunciato alla mobilitazione e alla lotta.

E il punto è proprio questo. L’affermazione del privato nell’organizzazione sanitaria sta destrutturando il sistema definito nella vecchia legge del 1978 e in quelle altrettanto importanti dello stesso anno (la legge 180 per la chiusura dei manicomi, la legge 194 per l’interruzione volontaria della gravidanza). Specie in condizioni di crisi il Capitale “scopre” che la salute è una merce e che la sanità è un affare e si adegua a tale condizione. E oggi non c’è più la classe operaia che ha fortemente voluto il sistema sanitario pubblico, partecipato e centrato sulla prevenzione. In compenso ci sono associazioni, movimenti, sindacati che, senza avere la pretesa di sostituire la classe operaia, fanno un’azione a difesa dei diritti e – oggi in particolare – di difesa del diritto alla salute.

Siamo nell’epoca della pandemia del Covid19, non l’abbiamo ancora superata, e non sappiamo quanto tempo ci vorrà avendo anche capito che la condizione ambientale fa nascere e/o mantiene le epidemie e che la società del profitto (che si oppone alla società della cura), cerca di trarne vantaggio, al di là di quanto viene detto sulla transizione ecologica. Aggiungiamo che non possiamo e non vogliamo tornare alla situazione precedente.

Torniamo, invece, alle associazioni e ai movimenti impegnati per l’affermazione e la difesa del diritto alla salute. Pensiamo che già da diverso tempo stanno mettendosi in relazione e a volte coordinandosi fra loro. Un lavoro che deve continuare, senza avere timore di perdere qualcosa della propria storia e delle proprie ragioni. La necessità di ottenere dei risultati deve prevalere. Ed è per questo che dobbiamo fare il possibile per ampliare la rete delle associazioni che operano per un’azione comune.

Un’azione comune deve essere basata su una piattaforma comune. Cominciamo con il dire che i denari che sono stati tolti alla sanità pubblica devono ad essa fare ritorno. Ora con il recovery plan, con quanto stabilito dalla UE per l’Italia non si può dire che manchino i denari e non è accettabile che si impieghino in tutto o in parte questi denari per la spesa militare affermando l’idiozia, come ancora fa qualcuno, che in questo modo si rilancia l’economia, ma quale economia? Quella delle disuguaglianze, quella del milione in più di disoccupati come è avvenuto nel periodo del Covid19? I denari ci sono e vanno rimessi al posto giusto. Proviamo dunque a fare un’analisi di ciò che è necessario per rilanciare la sanità pubblica, in ordine – ripetiamo – alla salvaguardia del diritto alla salute; eliminiamo, per quanto possibile,  progressivamente, il privato in sanità.

Si decida che non si possano più fare convenzionamenti con strutture sanitarie private promosse da società di capitale.

Si ritorni alla legge 833/1978 eliminando la strutturazione aziendalistica che l’ha in parte abolita, ma che è stata ripresa con il decreto legislativo 502/1992, nonché con una buona parte della legislazione regionale che l’ha ulteriormente affermata: se non servono le aziende nemmeno servono i direttori generali, i DRG (le modalità di rimborso degli ospedali e di altre strutture in base ai quantitativi di prestazioni). Basta con la libera professione intramoenia; si tolga ogni genere di ticket. Basta anche con la sanità integrativa: se non si può togliere da subito, vengano eliminati i benefici fiscali che la contraddistinguono.

Si ripristinino le Unità Sociosanitarie Locali con un numero limitato di abitanti affidandone la direzione ad organismi di nomina dei sindaci e con un comitato di partecipazione e controllo formato dalle associazioni e dai movimenti presenti sul territorio.

Nelle USSL si istituiscano le Case della Salute quali organismi sanitari territoriali dove principalmente devono essere presenti i medici di base che operano in gruppo insieme a infermieri e a operatori amministrativi. Occorrerà finalmente superare il convenzionamento anche per i medici di base, che invece dovrebbero diventare dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale al pari dei medici ospedalieri e degli specialisti. Nelle Case della Salute o nelle vicinanze devono essere previste le strutture di prevenzione a partire da quelle di Medicina del Lavoro e Igiene Pubblica e Ambientale, nonché i Consultori, I Servizi di Salute Mentale e delle Tossicodipendenze.  Dovremmo prendere atto che non si può più tenere separati i problemi della salute con quelli dell’ambiente, quindi dovremmo fare un unico servizio che si occupi di ambienti di lavoro, di igiene pubblica e più in generale di ambiente, con personale sufficiente e qualificato.

Nelle Case della Salute devono essere presenti i servizi di cure domiciliari (di ospedalizzazione a domicilio e di assistenza domiciliare integrata (ADI) che non possono essere affidati a cooperative; i primi vengano attivati direttamente dagli ospedali e l’ADI dai medici di base con una effettiva presa in carico.

Resta il problema degli ospedali generali, in cui sono presenti importanti specialità e reparti (come le rianimazioni) in grado di fare fronte a tutte le esigenze di intervento che provengono dal territorio. Anzitutto occorre stabilire che il riferimento direzionale (al di là dello specifico proprio dell’ospedale), deve essere posto in capo alla USSL dove l’ospedale si trova, anche per avere una relazione con tutti gli altri servizi presenti sul territorio. Vanno superate due difficoltà derivate ancora una volta dai tagli imposti negli anni passati dalla UE e dai DRG: il numero di posti letto deve essere non inferiore a quelli degli altri principali paesi europei. Non è corretto chiudere ospedali relativamente vicini (ma in situazioni di insediamenti abitativi di grandi dimensioni) per poi farne uno unico riducendo il numero di posti letto. Si è visto che posti letto insufficienti portano al fenomeno delle cosiddette “dimissioni selvagge”, ovvero a liberarsi di persone ancora malate gravi, anche se stabilizzate, di fatto senza rispettare la dovuta “continuità terapeutica”.

A proposito della continuità terapeutica occorre salvaguardare e, se del caso, aumentare gli istituti di Riabilitazione, e soprattutto mettere ordine alle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA o comunque si chiamino), che sono diventati tanto importanti quanto problematiche. Non possiamo accettare che l’80% di esse siano strutture private: è giunto il momento della loro progressiva pubblicizzazione iniziando a inserirle fra le strutture del Servizio Sanitario Nazionale, nella considerazione che la gran parte delle persone che vi si trovano sono pazienti non autosufficienti in genere colpiti da più patologie. Il diritto alle cure – senza limiti di durata – esiste anche per loro  e senza essere sottoposti a esborsi di denaro (loro o dei loro famigliari o dei comuni).

Da ultimo, per dare una risposta ai precedenti bisogni, dovrà esserci un numero sufficiente di operatori sanitari, in particolare medici e infermieri. Oggi non è così e allora occorre rivedere il complesso della formazione a partire da quella universitaria, sospendendo il numero chiuso e superando i cosiddetti imbuti per le specializzazioni.

Dobbiamo rivendicare tutto ciò e, come abbiamo già fatto, organizzarci per raggiungere gli obiettivi stabiliti, per arrivare ad una grande manifestazione nazionale a Roma, non appena ci siano le condizioni di mobilità, per affermare il diritto alla salute e ottenere una trattativa con l’Istituzione sanitaria e sociale – e con quella politica – per interrompere la deriva e invertire la tendenza, ripartendo dai principi fondamentali, contenuti negli articoli 3, 32, 41 della Costituzione nonché negli articoli 1 e 2 della legge 833/1978.

Photo Credits: Manifestazione de “La società della cura”, Saronno, dicembre 2020

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 46 di maggio-giugno 2021:  “La salute non è una merce

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