di Chiara Filoni (CADTM)
Si sente spesso parlare di come fino al 2008 l’Europa sia stata risparmiata dalla crisi del debito che aveva duramente colpito, di contro, i cosiddetti paesi in via di sviluppo (PVS) a partire dagli anni ottanta. In realtà, in quegli anni, anche l’Europa viveva un aumento vertiginoso dei tassi di interesse sul debito, con le dovute ricadute sullo stock dello stesso; ma questa esperienza sembra essere scomparsa dalla memoria collettiva.
La crisi del debito esplosa nel 1982 è il risultato della combinazione di due fattori. Da un lato, l’incremento vertiginoso dei tassi di interesse sul debito stesso, in conseguenza alla decisione di Paul Volcker, ex direttore della Federal Reserve americana, nell’ottobre 1979, di innalzare i tassi di interesse direttori per combattere lo spauracchio dell’inflazione. Da un altro, la diminuzione dei prezzi dei prodotti esportati dalle periferie al resto del mondo, la quale influenzò in special modo le economie dei paesi in via di sviluppo.
La crescita dei tassi di interesse, in particolare, ebbe delle ripercussioni non solo nei PVS – dove la Banca Mondiale incominciò ad applicare a partire da quel momento il proprio dogma liberista come contropartita all’eccessivo indebitamento – ma anche nel nord del mondo.
In Italia, ad esempio, i tassi di interesse sul debito schizzano alla stelle proprio a partire dagli anni ottanta, prima di tutto per effetto della già citata decisione della Federal Reserve di intervenire sui tassi di interesse; ma anche a causa della separazione fatta nel 1981 tra Tesoro Italiano e Banca Nazionale d’Italia. Questa decisione vincola lo Stato italiano, a partire da quel momento, a finanziarsi sul mercato secondario e non più attraverso l’emissione di moneta dalla Banca Centrale; e nonostante il mercato secondario sia per sua natura instabile e vittima delle sue stesse perturbazioni. Se nel 1979 i tassi nominali di interesse erano dell’11%, questi passano al 17 % nel 1981, per schizzare al 24% nel 1982 e ridiscendere al 15% nel 1984, attestandosi poi ad una media del 13,5%, per poi ridiscendere, di nuovo, dal 2000, a dei livelli più accettabili (5-6% ), ma sempre comunque sostenuti. Come evidenziato dal Centro Nuovo Modello di sviluppo, su uno stock totale di 850 miliardi di euro di debito, l’Italia accumula 596 miliardi di soli interessi in appena dodici anni (dal 1980 al 1992). Questo fenomeno va sotto il nome di anatocismo o interesse composto, e designa l’interesse che viene ogni anno aggiunto al debito. Vi è interesse composto quando l’interesse non viene calcolato solo sul principale (il capitale di partenza), ma anche sugli interessi aggiunti al debito in precedenza – in altre parole, sul montante.
Ma l’Italia non è la sola ad anticipare questo cambiamento essenziale del finanziamento statale – che diverrà poi obbligatorio, a partire dal trattato di Maastricht. Anche in Francia la cosiddetta Loi Pompidou-Giscard o Loi Rothschild del 1973, modifica lo statuto della Banca di Francia, obbligando lo Stato francese a finanziarsi tramite i mercati privati. Della serie: i buoni allievi dell’Europa.
Ma passiamo agli espedienti adottati per far fronte a queste crisi. Che si tratti del terzo o primo mondo – e quindi rispettivamente di politiche di aggiustamento strutturale da una parte o di «convergenza» o «austerità» dall’altra – la soluzione al debito è stata ed è rimasta identica dappertutto. Media mainstream, accademici e politici di turno, non fanno altro che parlarci da decenni dei benefici che proverrebbero dalla riduzione della presenza dello stato nell’economia, dalla diminuzione della spesa, dalle privatizzazioni, dalla deregolamentazione degli scambi commerciali, dalla soppressione dei controlli sui tassi di cambio e dall’aumento della tassazione (quasi mai sfavorevole al grande capitale e ai patrimoni). Dal Congo al Belgio, dall’Italia al Brasile, dalla Spagna alla Thailandia, la ricetta è sempre la stessa, con le dovute varianti del caso e a seconda dei rapporti di forza presenti nei vari stati. In tutti questi paesi e in molti altri l’austerity non è stata inventata negli ultimi cinque anni, ma è frutto di una politica classista che si rinforza sempre di più da oltre trent’anni.
Quello che non ci sentiamo dire è però che queste politiche, preposte a risolvere l’indebitamento, in realtà lo aggravano; e che il debito rappresenta proprio l’ingranaggio infernale con cui viene trasferita la ricchezza dai paesi poveri a quelli ricchi; o come meglio oggi si potrebbe dire, dal 99% a quell’1% detentore di capitali.
Facendo un grande salto nel tempo e arrivando alla crisi del 2007-2008, cambia il contesto ma non la sostanza: stati indebitati oltre ogni misura e strangolati dal rimborso di un debito insostenibile.
La crisi dei subprimes che esplode negli Stati Uniti si trasferisce in Europa a causa della profonda interconnessione finanziaria esistente tra le banche. E le banche, nello specifico, sono i principali detentori di titoli di debito (che si tratti di banche nazionali o estere). In Italia, per esempio, gli investitori istituzionali (ovverosia banche, assicurazioni e fondi di investimento), possiedono circa l’87% del debito italiano.
Ma le banche sono anche all’origine della speculazione finanziaria che viene operata su questi stessi titoli, grazie alla cosiddetta “finanza creativa”: swaps, CDO, CDS e altri tipi di derivati sono all’origine dell’aumento dei tassi di interesse sul debito. Più i tassi di interesse sono alti, infatti, più è redditizio il titolo di stato, più, quindi, si investe. Specie in una situazione di instabilità e incertezza quale quella in cui si trovavano gli stati europei all’inizio della crisi. Allo stesso tempo, le agenzie di rating ci mettono del loro tramite il declassamento o l’aumento del loro rating che valuta il rischio di determinati titoli a partire da parametri fittizi, confermando una situazione di panico o euforia. E non importa se questi giochi di compravendita fanno aumentare ancor più i tassi di interesse – quindi i debiti statali – tanto gli stati possono sempre tassare di più i loro cittadini per ripagare il debito. E’ l’inizio della fine.
A partire dal 2010, le obbligazioni pubbliche dei paesi della periferia europea (in particolar modo greche) si deprezzano vertiginosamente sul mercato secondario. Dal 2011 al 2012 i tassi di interesse delle obbligazioni greche schizzano dal 25% al 35%.
Le banche, seppur responsabili di questa situazione, non pagano mai per i propri errori (con rarissime eccezioni): molte cercano di sbarazzarsi dei titoli di debito di Italia, Grecia, Spagna perché rischiano la bancarotta. Ma è ormai troppo tardi, il danno è già stato fatto. Per cui lo Stato “è costretto ad intervenire”. L’Irlanda ha speso 63 miliardi di euro per salvare le proprie banche – il 40,5% del Pil del paese, e senza contare i 66 miliardi di garanzie pubbliche. La Grecia 35 miliardi, l’equivalente del 28% del Pil. In Gran Bretagna si contano 80 miliardi, in Germania 65 miliardi, in Italia 6,2 (senza contare i 631 miliardi di garanzie). Negli Stati Uniti, il paese più colpito dalla crisi, i salvataggi bancari sono costati 3326 miliardi, con 16184 miliardi di garanzie. Come dire, oltre il danno (la crisi), la beffa (debiti privati che si trasformano in debiti pubblici).
Per completare il quadro dell’indebitamento europeo si devono aggiungere alla lista, per dovere di cronaca, le riforme fiscali che da oramai venti anni fanno gli interessi di grandi patrimoni e imprese. Una disciplina fiscale a favore dei ricchi vuol dire meno entrate per lo stato. Meno entrate per lo stato vuol dire che lo stato, per finanziarsi, deve indebitarsi sui mercati finanziari.
A questo si aggiunga inoltre che in Europa, con il trattato di Maastricht (confermato dall’articolo 123 del Trattato di Lisbona), i poteri pubblici non possono più finanziarsi presso la propria Banca Centrale (anche se abbiamo visto che alcuni paesi come l’Italia e la Francia avevano già anticipato questa riforma) e nemmeno presso la Banca Centrale Europea. Secondo i trattati europei, infatti, esse sono obbligate a passare dalle società finanziarie private, in nome della presunta necessità di mantenere la BCE indipendente da qualsivoglia potere pubblico. Ciò vuol dire finanziarsi a dei tassi di interesse molto più alti rispetto ai tassi concessionali offerti dalle Banche Centrali.
In ultimo, l’austerity che governa le nostre vite dal 2010 ha avvilito le economie dei paesi europei, obbligando gli stati a tagliare quella spesa pubblica necessaria allo sviluppo sociale ed economico del paese, e impedendo così qualsiasi tipo di redistribuzione della ricchezza.
Da oramai troppo tempo sopportiamo il peso di questo debito, e delle politiche economiche che partecipano al suo aggravarsi. È il momento di fare chiarezza su questo mantra confuso che sono l’indebitamento statale, i salvataggi bancari e i programmi della Troika, formalizzati o meno, che minacciano i diritti basilari delle persone: un lavoro degno, una sanità universale, un’educazione libera e di qualità. Questi servizi non devono venire meno in nome del pagamento di un debito non meglio identificato, figlio della speculazione finanziaria o più in generale di una architettura finanziaria oligarchica.
Un audit delle finanze pubbliche allo scopo di ripudiare la parte illegittima del debito è urgente. Che venga da un’iniziativa politica, come nel caso dell’Equador nel 2008, o della Grecia oggi, oppure da un’iniziativa cittadina, come dimostrato dalle varie esperienze di audit cittadino sparse in Europa, l’audit dimostra che chiedere trasparenza e democrazia nella gestione della cosa pubblica è possibile e si può realizzare, da subito.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia di Maggio 2015 “Vantiamo solo crediti”, scaricabile qui.