BCE fra interventismo e stabilità

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di Matteo Bortolon

Nel dibattito politico ed economico attuale il ruolo di protagonista è detenuto dalla Banca Centrale Europea. Ciò da un lato restituisce la misura di come questioni fino a qualche anno fa poco discusse – la moneta, le banche, ecc. – abbiano guadagnato la ribalta; dall’altro, è proporzionale alla crescita del potere e della visibilità di tale istituzione. Per impostare una riflessione su dove stiamo andando occorre fare un passo indietro e capire quali sono i binari sui quali da anni si era instradata l’evoluzione attuale, che può esser letta più come fase di accelerazione e intensificazione che come vera mutazione. Si configura insomma una svolta nella continuità istituzionale come adeguamento funzionale alla nuova situazione di crisi.

Il rafforzamento della BCE è conseguenza diretta del mutamento del panorama mondiale, che dall’inizio della libera fluttuazione delle valute nel 1971 è votato all’iper-competizione. La conseguenza di ciò è stata la creazione di blocchi di paesi uniti in aree geo-economiche, unitarie ma disomogenee, sottostanti ad un rigido controllo dei cambi in funzione da un lato difensiva rispetto all’instabilità intrinseca dei mercati finanziari, dall’altro accelerativa degli stessi in maniera tale da sospingere il più possibile l’accumulazione di profitto finanziario. Agli organismi tecnocratico-finanziari quali la BCE vengono attribuiti tali compiti, che, nel progressivo esautoramento delle banche centrali nazionali degli stati membri, generano un processo che possiede già una dimensione politica. Lo sottolineava lo stesso Draghi il 2 gennaio scorso, richiamandosi ad una sostanziale integrazione già fatta, da completare con ulteriori rafforzamenti istituzionali.

Va da sé che la struttura interna di tali aree è di tipo rigidamente gerarchico, e il livello di restrizione monetaria e fiscale (necessario a corazzare la valuta di riferimento, in questo caso l’euro) procede di pari passo con forme di controllo sui singoli rapporti nazionali capitale-lavoro, e di pressione sugli assetti costituzionali e giuridici degli Stati membri.

Particolarità della BCE assai singolare è di non essere l’espressione di uno Stato ma di una ibrida entità sovranazionale che trae la sua forza dai suoi Stati membri: questi operano in molti ambiti una vera e propria dislocazione della propria sovranità al livello comunitario, sempre rigidamente controllato dai rispettivi governi, che in tal modo riescono a scavalcare la volontà dei rispettivi Parlamenti. Si vede quindi come la trasformazione della BCE da organismo tecnico a soggetto politico sia una svolta relativa, sempre nell’ambito dello stesso plesso istituzionale, ma che le circostanze spingono la Banca Centrale Europea ad intestarsi nuove funzioni e a sviluppare inedite possibilità di governo. Così ci si restituisce l’immagine, corretta ma incompleta, del mutamento da sonnecchiosa guardiana della routine monetaria a svettante centro di potere eurocratico, solo soggetto capace di incisivi interventi.

È il governatore della Banca Centrale Francese a segnalare come i bilanci delle banche centrali abbiano visto una espansione incredibile, triplicando dal 2007 fino all’iperbolica cifra di 22 trilioni a fine 2014. Si tratta di un fenomeno inusitato ma silenziato dai media, che riflette da un lato la fornitura di liquidità al settore bancario, dall’altro l’acquisto di titoli pubblici (sostanzialmente a tali operazioni sono riconducibili i vari programmi della BCE che costellano le pagine di pubblicazioni finanziarie: SMP, CBPP, ABSPP, QE).

Se l’attivismo delle banche centrali è un fenomeno mondiale – che coinvolge tanto i paesi avanzati che quelli in crescita – il caso dell’eurozona è però peculiare. In esso la BCE è segnata dalla più stringente indipendenza rispetto tanto rispetto agli Stati membri quanto alle istituzioni comunitarie nel perseguimento in modo pressoché esclusivo dell’obiettivo della stabilità dei prezzi, secondo il modello tedesco (in contrasto con quello franco-inglese che invece avrebbe previsto la tutela di crescita e occupazione). Si vede quindi una sostanziale dissociazione istituzionale fra la sovranità monetario-finanziaria, assorbita dalla sfera tecnocratica europea, e quella economico-fiscale e dei redditi, lasciata agli Stati membri ma con un’autonomia assai ridotta e in continua volatilizzazione. La stessa finanza pubblica nella forma del Patto di Stabilità e Crescita subisce un invasivo processo di adattamento alla necessità monetario-finanziarie (la forma di soggezione politico-psicologica è stata celebrata come la “cultura della stabilità” da C. A. Ciampi).

L’inusitato protagonismo della BCE ha avvio nel contesto della crisi del 2007: i rischi da essa generati – fra i quali il blocco del credito interbancario (le banche, non fidandosi, non si prestavano più a vicenda) – hanno richiamato l’intervento dell’unico soggetto rimasto in campo con strumenti abbastanza forti da soccorrere il sistema bancario: visto che gli Stati si sono visti privati di molte prerogative per influire sulla sfera economica, la BCE ha iniziato ad affiancare la Commissione nella gestione della crisi del debito sovrano, fino al punto di impartire dettagliate istruzioni di politica economica agli Stati in difficoltà. Il quadro delle misure per fronteggiare la crisi, asetticamente chiamato nuova governance economica, vede troneggiare le operazioni finanziarie della BCE accanto ai fondi salva-Stati (rallentati da dissidi e negoziati dei vertici governativi) e la stretta sui bilanci pubblici (regolamenti inerenti l’iter di approvazione della legge di stabilità e il Fiscal Compact). L’interventismo dell’istituto guidato da Draghi (visto anche come una forma di keynesismo) ha suscitato opposizione, in quanto pare andare oltre il suo mandato di conservare la stabilità dei prezzi senza finanziare gli Stati in alcun modo: comprare i titoli di Stato sul mercato secondario, infatti, influisce in modo significativo su quello primario, dove sono direttamente i ministeri a piazzarli.

I dissidi della nomenclatura europea possono essere visti come una crisi di adattamento istituzionale. La dissociazione sopra delineata fra sovranità monetaria da un lato e economico-fiscale dall’altro – rimasta agli Stati ma nella condizione di dover subire l’impatto condizionante delle decisioni monetarie – va ricomposta per tenere sotto controllo la situazione. Le questioni aperte è chi darà la linea: bisogna cioè capire se l’inedito ruolo della BCE come guardiana della stabilità finanziaria oltre che monetaria verrà sussunto in un plesso organizzativo di potere dove Stati e istituzioni comunitarie riprenderanno terreno o se verrà sancito da una blindatura istituzionale che ne confermerà la primazia. Altra questione aperta è se il conseguente svuotamento del ruolo sociale degli Stati, col sacrificio dei diritti garantiti dal nucleo essenziale delle costituzioni attuali verrà sopportato senza scosse da cittadini e movimenti o se una reazione popolare aprirà ad una via alternativa.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia di Maggio 2015 “Vantiamo solo crediti”, scaricabile qui.

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