di Marco Bersani
*articolo pubblicato su il manifesto del 20 maggio 2023 per la rubrica Nuova finanza pubblica
Le terre di Romagna vengono allagate per la seconda volta in un mese e le istituzioni a tutti i livelli gridano all’emergenza. Dizionario alla mano, emergenza significa circostanza non prevista. È esattamente questo il nodo su cui punta la narrazione dominante, quando non scade nella farsa, additando all’iper produttività delle nutrie la causa della rottura degli argini di ben 23 fiumi e corsi d’acqua.
Ma come si fa a definire «circostanza non prevista» un fenomeno che, come dimostrano gli annuali rapporti dell’Ispra, è strutturale? Scorrendo l’ultimo di questi (2021) si legge che il 93,9% dei Comuni italiani (7423) è a rischio frane, alluvioni e/o erosione costiera. Più precisamente, abbiamo 1,3 milioni di abitanti a rischio frane e 6,8 milioni a rischio alluvioni. Sempre secondo il rapporto, le regioni più a rischio sono Emilia Romagna, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia e Liguria.
Iniziamo allora a rimettere la logica al suo posto. Come dice la nuova generazione ecologista con quotidiani e variegati flashmob, non stiamo parlando di pioggia ma di crisi climatica. La prima è un evento, la seconda una dimensione. La prima passa, la seconda va affrontata.
La pioggia può diventare un’emergenza, la crisi climatica è l’ordinario scorrere delle nostre vite in un’epoca che ha squassato la relazione con la natura, basandola sull’estrazione, devastazione e predazione a scopo di profitto. Per affrontarla servono strategie radicali di cambiamento del modello produttivo e di consumo di suolo ed energia. Serve la rivoluzione della cura contro l’economia del profitto. Serve la democrazia economica contro la dittatura del mercato. Serve l’interdipendenza relazionale contro l’onnipotenza patriarcale.
E servono 26 miliardi, qui ed ora, per il riassetto idrogeologico del territorio. Soldi introvabili per il governo, che, mentre si aggiusta l’elmetto allo specchio, ne spende altrettanti per le armi e per la guerra. Nonostante la litania quotidiana della narrazione dominante, i soldi ci sono, sono tanti, persino troppi: il problema è che sono tutti nelle mani sbagliate o indirizzati a interessi di tipo privatistico.
Occorre aprire un conflitto su un nodo fondamentale del nostro Paese: Cassa Depositi e Prestiti, che, solo con la raccolta del risparmio di 22 milioni di persone, gestisce 280 miliardi. Se per oltre 140 anni, Cdp aveva utilizzato quei risparmi per finanziare a tassi agevolati gli investimenti degli enti locali, permettendo a questi di realizzare acquedotti, scuole, ferrovie, ospedali senza trovarsi affondati nei debiti con le banche, dalla sua trasformazione in Spa nel 2003, Cassa Depositi e Prestiti è diventata un mostro economico-finanziario che oggi detiene quote delle grandi società di rete (Eni, Snam, Italgas, Terna) finanziando l’energia fossile, di grandi settori industriali (Fincantieri, Ansaldo) finanziando la guerra, e con i Comuni si relaziona come una qualsiasi banca per fare profitti, favorendo la dismissione del patrimonio pubblico e la privatizzazione dei servizi pubblici locali.
Trasformare Cassa Depositi e Prestiti diventa una priorità per poter mettere a disposizione delle comunità territoriali le risorse necessarie a una vita degna e alla costruzione di un nuovo modello sociale, ecologico e relazionale.
È quanto si prefigge la campagna Riprendiamoci il Comune con due leggi d’iniziativa popolare per cambiare la finanza locale e per mettere Cassa Depositi e Prestiti al servizio delle comunità territoriali. Sostenere questa campagna non allevia il dolore di chi oggi ha perso affetti, casa e relazioni in terra di Romagna, ma permette di aprire un conflitto perché non accada più domani.