di Marco Schiaffino
Nei libri di storia che gli studenti leggeranno tra 30 o 50 anni, la Turchia potrebbe avere un ruolo centrale.
Speriamo di no. Per il momento, puntare lo sguardo su Ankara è un ottimo esercizio per comprendere a pieno i paradossi del neoliberismo del terzo millennio.
Partiamo dalla cronaca. Il 24 novembre 2015 due F16 dell’aviazione turca hanno abbattuto un bombardiere russo Sukhoi-24 impegnato in azioni contro i ribelli in Siria. Stati Uniti e Unione Europea non hanno battuto ciglio. Il 30 novembre, il governo di Vladimir Putin ha accusato pubblicamente la Turchia di sostenere l’ISIS, acquistando il petrolio estratto nei territori irakeni e siriani sotto il controllo dei terroristi (qualsiasi cosa possa significare questa parola all’interno di questo contesto) offrendo loro in cambio armi e ed equipaggiamento. Sulla fondatezza delle accuse, probabilmente, ci sarà da discutere. Ma prima ancora di qualsiasi verifica, Stati Uniti e Unione Europea si sono affrettati a definire le accuse “assurde”.
C’è poco da stupirsi. La Turchia di Recep Tayyp Erdogan è membro della NATO e, probabilmente, entrerà presto a far parte dell’Unione Europea. Anche se le accuse russe fossero fondate, però, l’ipotesi che Erdogan abbia approfittato di uno scenario di guerra per garantirsi approvvigionamenti petroliferi a basso costo, sarebbe probabilmente vista dagli alleati come una dimostrazione di grande capacità imprenditoriale. D’altra parte la spartizione dei giacimenti nell’area, a partire dalla guerra a Saddam, hanno rappresentato il vero leit motiv della politica estera occidentale in Medio Oriente. Chi è senza peccato lanci il primo patriot.
A Erdogan manca solo un ufficio stampa che riesca a mascherare un po’ meglio le sue strategie commerciali, come fanno i paesi del “mondo libero” quando scagliano anatemi contro il terrorismo e intanto inondano il mercato di armamenti e fanno affari con i finanziatori (più o meno occulti) dell’ISIS. Il ragazzo si farà. Le sue capacità di ottimizzazione del business, invece non si possono mettere in dubbio. Per il governo turco la guerra in Siria è come il maiale: non si butta via niente. Se il caos nell’area è una buona occasione per scippare un po’ di petrolio sotto costo e bombardare i curdi di straforo, la massa di profughi in fuga dalla guerra è diventata l’opportunità per mercanteggiare un’accelerazione del processo d’ingresso nell’unione in cambio della garanzia che la Turchia “controlli” il flusso di migranti per tenerli fuori dalla fortezza Europa. Qualcosa di simile a quello che ha fatto il colonnello Gheddafi fino alla sua caduta ma, vista l’enormità di uomini e donne che oggi si accalcano ai confini del vecchio continente, Erdogan può contare addirittura su un maggiore potere contrattuale. Tanto da indurre i democratici paesi della UE a sorvolare sulla scarsa aderenza agli standard europei della Turchia in termini di libertà civili (giornali chiusi per decreto, reporter arrestati) e considerare di prendere con sé un paese in cui gli oppositori del governo hanno un tasso di mortalità (tra assassinii e attentati) decisamente sopra la media del continente.
La ciliegina sulla torta è rappresentata da quei 3 miliardi di euro di “contributo” offerto per non aprire le cateratte della migrazione verso l’Europa. Un bel dossier, che in questi giorni permette allo zar Vladimir Putin di sparare (metaforicamente) ad alzo zero contro la Turchia avendo anche la possibilità di passare per un sincero democratico agli occhi dell’opinione pubblica. Nella terra dei ciechi, l’orbo è re.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 22 di Novembre-Dicembre 2015 “System Change NOT Climate Change”, scaricabile qui.