di: Marco Bertorello
Ogni volta che l’Italia finisce sotto i riflettori internazionali e si paventano difficoltà sul piano finanziario il primo comparto a soffrirne è quello bancario. Salvini ha buon gioco a sottolineare come una prospettiva eterodossa rispetto ai dogmi europei venga sovente arginata da pressioni, lettere, aumento dello spread. Ma provare a uscire dall’austerità implica da un lato ridiscutere il debito, dall’altro avere cognizione delle debolezze congenite e delle difficoltà in cui sicuramente si è destinati a incorrere rimettendo in discussione il debito stesso.
Una di queste debolezze è rappresentata appunto dal sistema bancario, non fosse altro perché è il comparto collaterale a qualsiasi ipotesi di sostenibilità del debito sovrano. Da tempo l’Europa, o una parte di essa, solleva il problema di un eccesso di titoli pubblici in pancia al sistema di credito italiano. Ma tale fenomeno è andato accentuandosi proprio quando, a partire dal 2011, è emersa la crisi del debito sovrano, cioè quando attraverso i finanziamenti agevolati della Bce il sistema del credito italiano veniva incentivato ad acquistare titoli di Stato per arginare la crisi del debito. Questo è uno dei motivi per cui la quota di debito in mano alle banche è così elevata, in quanto esse sono state utilizzate per aggirare gli ostacoli della banca centrale a monetizzare il debito stesso. La debolezza specifica delle banche italiane, però, non è riconducibile solo alle difficoltà di finanza pubblica, ma anche a quelle dell’economia reale. La percentuale di crediti deteriorati è tra le più elevate d’Europa, frutto dei colpi abbattutisi sul sistema produttivo italiano con la crisi. Quello che in Italia viene chiamato bancocentrismo del finanziamento all’impresa ha determinato, tutto sommato, una ridotta esposizione ai circuiti finanziari globali crollati nel 2008, mentre gli effetti della crisi nell’economia reale sono emersi con tempi più lunghi. Nella Relazione annuale il governatore della Banca d’Italia sottolinea come il tasso di deterioramento dei crediti sia migliorato e come lo stesso governo si sia impegnato a facilitare un’ulteriore riduzione dei crediti deteriorati non ancora in sofferenza, cioè quelli di aziende in difficoltà temporanea. Nonostante i segnali positivi il settore subisce repentine crisi in Borsa in conseguenza delle recenti dichiarazioni bellicose del governo su debito ed Europa. Il solo paventare un ritorno di tensioni, tanto più dopo l’affermazione elettorale leghista, significa mandare in affanno il sistema bancario. Un sistema già provato da casi come quello di Carige, istituto ligure di medie dimensioni, che non riesce a trovare acquirenti, neppure tra i Fondi speculativi, finendo per vedersi allungare i tempi del risanamento sotto la spada di Damocle di una ristrutturazione caratterizzata da una drastica riduzione del personale. Queste criticità spiegano direttamente come il sistema del credito risulti fragile e indirettamente come la ripartenza dell’economia sia debole e incerta. Il dato è continentale, stretto tra le banche tedesche piene di derivati e quelle italiane con un’elevata dose di crediti inesigibili. Gli unici provvedimenti all’orizzonte sono incentrati su una profonda ristrutturazione dei costi che, già nel solo 2018, ha condotto in Unione Europea a 8.000 filiali e 72.000 dipendenti in meno. La Bce, però, sostiene che non è stato fatto abbastanza, che i costi finiscono per erodere i margini di profitto e che la concentrazione è al di sotto delle necessità. Eppure a livello continentale la centralità delle banche è confermata dal fatto che costituiscono ancora l’80% del finanziamento alle imprese. La risposta, dunque, è aumentare i cartelli e ridurre l’occupazione. L’innovazione tecnologica indubbiamente penetra nelle banche, ma se uno dei settori ritenuto centrale per lo sviluppo deve sopravvivere a queste condizioni, di quale sviluppo si sta parlando?
Pubblicato su Il Manifesto del 15.6.2019