Il diritto all’esistenza

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di Roberto Ciccarelli  (giornalista e saggista)

Nei mesi che hanno preceduto le elezioni del Parlamento europeo del 2024 Mario Draghi, l’ex presidente del consiglio già governatore della Banca d’Italia e della Banca Centrale Europea, è stato incaricato dalla Commissione Europea di scrivere un rapporto sulla “competitività”. Era un promemoria per il prossimo esecutivo continentale, qualcosa di più effimero rispetto a documenti come i “Libri bianchi” o quelli “Verdi” prodotti dalla Commissione per completare alcuni aspetti di un’Unione Europea sempre più sgangherata. Fu il caso, ad esempio, del “libro bianco” sul “mercato unico” di Jacques Delors del 1985. Il mercato di cui si occupava allora Delors, recentemente scomparso, è stato realizzato dopo il trattato di Maastricht del 1992: unione economica e monetaria, la moneta unica dell’Euro e l’allargamento ai paesi dell’ex blocco sovietico, oggi diventati sia gli agenti dell’influenza russa in Europa (Ungheria), sia i luoghi dove la Germania ha delocalizzato le produzioni facendo dumping salariale al suo interno e concorrenza con gli altri stati-membri dell’Unione.

L’impresa affidata a Draghi è sembrata più funzionale alla nomea del suo autore forte di un cursus honorum stellare che a un processo formalizzato di cui fu protagonista Delors. Ma è stato anche uno dei tanti segnali giunti dall’inizio dell’anno di un’emergenza cresciuta dopo la guerra russa in Ucraina e a seguito della crisi economica generata dalla nuova inflazione. Circolava da mesi la consapevolezza di un cambiamento strutturale che un’Europa immobile avrebbe dovuto affrontare. Una nuova economia di guerra fatta di conflitti energetici, commerciali, tecnologici, militari scatenati dalla nuova fase della globalizzazione. L’Europa era, e resta, un vaso di coccio in una battaglia tra soggetti imperiali e sub-imperiali.

La “competitività” di cui ha parlato Draghi è il nome di una politica che interessa sia la produzione che il commercio, la società e l’industria militare e tecnologica. La sua matrice ideologica è di tipo neoliberale. Nella declinazione data da Draghi confligge con l’ortodossia prevalente di un ordoliberalismo tedesco e da versioni ancora più grette presenti tra gli alleati “frugali” della Germania. Insieme questi soggetti oppongono la disciplina di bilancio agli investimenti. Consapevole di questo problema Draghi ha cercato di coniugare l’austerità con il rilancio dell’accumulazione.

L’Unione Europea, a suo avviso, dovrebbe recuperare un ritardo storico negli investimenti rispetto alla Cina e soprattutto agli Stati Uniti. Un ritardo che però è stato l’esito sia delle delocalizzazioni e delle filiere lunghe della globalizzazione, sia di quell’idea politica che ha opposto l’austerità agli investimenti con annesso blocco della crescita salariale e definanziamento del Welfare. L’idea di accorciare le catene del valore, reinternalizzando alcune produzioni, è funzionale alla necessità di rafforzare la capacità dell’Ue di “competere”, cioè trasformarsi in un’unità combattente di Stati-Nazione che però restano scoordinati e concorrenti tra di loro.

In uno scenario in cui si rispolverano antiche immagini coloniali di un’Europa “giardino” circondata da una giungla, Draghi ha suggerito che gli enormi squilibri europei non possono essere compensati dalle politiche monetarie. Servono quelle fiscali e di bilancio. E, dato che la disciplina restrittiva del bilancio è intoccabile, allora bisogna trovare il modo per finanziare altrimenti circa 600 miliardi di euro all’anno nella transizione verde e digitale. Dovranno essere reperiti con il debito comune e da capitali privati, sul mercato o attraverso la Banca Europea per gli Investimenti (Bei). Senza contare gli 800 miliardi ritenuti necessari per tagliare il 90% delle emissioni entro il 2040. E poi ci sono i 75 miliardi da dare alla Nato per rispettare l’impegno del 2% di Pil all’anno in armi. Questioni evocate dalla commissione von der Leyen che ha chiuso il suo mandato in una paralisi politica.

Il rompicapo che Draghi ha affrontato è questo: per fare rinascere l’Europa neoliberale serve trovare un modo per finanziare gli Stati nonostante i loro governi. È la contraddizione costitutiva di questo aggregato infelice di Stati-Nazione che dovranno comunque trovare un accordo per completare l’unione bancaria, il mercato unico dei capitali, oltre che dell’energia. Lontana è invece la politica unica di bilancio. Servirebbe un allineamento di pianeti. Che avverrà negli anni, ma sempre al ribasso. Com’è avvenuto nel caso del “Next generation Eu”. Un fondo accolto come un miracolo in Italia ma che, rispetto a strategie analoghe intraprese negli Usa per contenere gli effetti dell’inflazione, è del tutto inadeguato e ben lontano dall’essere efficace come sta dimostrando la sua applicazione italiana del “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (Pnrr).

Ciò che è interessante in questa confusa, e inquietante, stagione è l’idea di “sicurezza” declinata da Draghi. “Sicurezza” sia militare che sociale di un’Europa sempre meno autonoma e ostaggio dei suoi storici limiti strutturali. Ciò che si tratta di mettere in “sicurezza”, anche con l’aumento della spesa militare e la creazione di nuovi strumenti finanziari, è il “modello sociale europeo”: il Welfare.

Ma in cosa consiste questo Welfare? È un modello autoritario e conservatore, cioè un Workfare, frutto di una svolta neoliberale della crisi dello Stato sociale. I suoi limiti sono drammaticamente emersi durante la pandemia del Covid. Nulla è stato risolto da allora, a cominciare dalla sanità. E ancor meno hanno risolto programmi effimeri contro la disoccupazione: lo “Strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione” (Sure) adottato solo per il tempo dell’emergenza pandemica. Nessuna traccia di “reddito minimo” europeo che il parlamento europeo ha più volte sollecitato ad adottare a livello continentale dal 1992. Il cosiddetto “pilastro sociale” è uno dei fantasmi che popolano un cimitero di proposte.

Non è solo Draghi ad invitare a difendere un modello inadeguato, ingiusto e escludente usando in maniera unilaterale, e acritica, sia il problema demografico che quello della produttività al fine di intensificare lo sfruttamento del lavoro precario e l’allungamento oltre ogni limite psico-fisico dell’età pensionabile. Si vuole difendere questo sistema giustificando così la necessità di partecipare a una “competizione” internazionale sempre più aggressiva. Un ulteriore ribasso di un’economia stagnante potrebbe minare la stabilità in società percorse da risentimenti reazionari e nazionalisti. Le nuove austerità preannunciate dal nuovo patto di Stabilità, in vigore nel 2025, non potranno che peggiorare la situazione, rafforzando la tendenza autoritarie del liberalismo europeo che spesso ricorre a strategie populiste per consolidare il suo consenso declinante. In questa contraddizione non si trova solo Draghi, ma anche i mondi che non ascoltano il suo discorso sulla necessità di una riforma dall’alto ispirata a una modernizzazione reazionaria dello Stato sociale.

Una svolta è difficile da immaginare in una condizione di impotenza organizzata. Le alternative restano frammentate, irretite dalle strategie della polarizzazione mediatica agite in maniera acritica in un quadro storico ispirato al morfinismo e all’opportunismo politico, al disfattismo e all’apocalittismo storico, alla passività e al nichilismo culturale. Trovo fastidiose le onnipresenti soluzioni volontaristiche, estetiche, utopiste come anche le requisitorie moralistiche dei denunciatori sociali di professione. Né servono appelli, profezie e ottimismi di maniera.

In uno scenario di individualismi e solitudini continuo a lavorare su ipotesi sperimentali, criteri orientativi, prassi culturali ispirate a una gioia spinozista che può concretizzarsi nella rivendicazione di un diritto all’esistenza. Di questo parlo in libri e articoli. Con frustrazione crescente, ammetto. Ma questo è il problema. E non sono l’unico ad averlo individuato. Per ora non resta che individuare nuovi strumenti della critica. Ogni problema ha bisogno di una soluzione creatrice, hanno scritto Gilles Deleuze e Félix Guattari. E di massa, aggiungerei. Credo di averla trovata in questo diritto all’esistenza irriducibile sia alla scienza triste dell’economia che a quella miserabile del funzionalismo nella governance neoliberale. Un reddito di base incondizionato è una sua puntuale rappresentazione. Ma sarebbe il primo passo, pur minimo e oggi purtroppo lunare, di un rivolgimento generale che ha bisogno di discontinuità gigantesche, a cominciare dalla rottura dell’equazione tra la spesa militare e quella sociale. Il diritto all’esistenza ha una rilevanza costituzionale ed è associabile a una politica rivoluzionaria. In un lontano tempo di guerra è stato detto: vogliamo il pane e la pace. Poi sono arrivate anche le rose. Oggi c’è bisogno dell’acqua, dell’aria e della natura per farle sbocciare.

Foto: phoenixcharge: The revolution is growing

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 52 di Febbraio-Marzo 2024: “Europa: a che punto è la notte?

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