MES: dall’emergenza alla normalizzazione (fallita?)

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di Matteo Bortolon  (CADTM Italia)

Il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) è un ingranaggio chiave della ridefinizione della governance economica della Ue compiuta nel decennio scorso. È l’unico elemento di essa che è emerso più volte dall’oblio mediatico per il reiterato tentativo di riformarlo; tentativo al momento andato a vuoto dato che l’Italia, unico membro, non ha ratificato l’insieme delle modifiche.

Sia per capire la sua funzione allo status attuale, sia per comprendere l’asserita necessità di modificarlo occorre tornare al disegno complessivo per cui è stato generato.

 

Riforma dell’eurosistema per affrontare la crisi

Nel corso della “crisi dei debiti sovrani” i vertici Ue hanno dovuto affrontare il possibile fallimento delle maggiori banche del continente, innescato dalle dinamiche della crisi finanziaria Usa e causata da un sistema che, per accrescere i profitti, ha permesso una acutizzazione dei rischi.

La risposta è stata in prima istanza quella di consentire il travaso di grandi somme a tali enti; lo State Aid Scoreboard 2018 della Commissione attesta l’autorizzazione di aiuti di Stato per le banche pari a 1459,4 miliardi di €  fra 2008-17, oltre a 3658,6 miliardi di € di garanzie.

Ma le banche dei paesi centrali (in specie Francia e Germania) avevano anche crediti (somme  dovute, quindi) con le banche della periferia europea, che la crisi stava portando al fallimento.

La manovra, tortuosamente ideata, è stata quella di trovare il modo di finanziare gli Stati periferici (cioè Spagna, Portogallo, Irlanda, Cipro, Grecia) spingendoli a salvare le proprie banche, che in tal modo avrebbero soddisfatto gli istituti creditori del core europeo: un po’ un salvataggio senza darlo a vedere – anzi: dando a intendere che sarebbero stati altri ad essere salvati.

Occorreva quindi una qualche forma istituzionale per compiere l’operazione, la cui cornice politico-giuridica si è articolata nei seguenti obiettivi: controllo più stringente sui bilanci nazionali, programmi monetari espansivi, riequilibrio dei conti esteri, nuove regole per le banche di maggiori dimensioni.

Il sistema che ne è derivato esiste ed è ancora in evoluzione. Costruito sull’emergenza, mostra contraddizioni e incongruenze. Una di esse è che il MES non è un organo della Ue, ma un ente di diritto internazionale i cui membri coincidono con gli Stati dell’Eurozona. Tratto non ancora sanato.

 

Austerità in azione

Di fondi “salva-stati” ne sono esistiti ben tre: il primo era solo un programma di finanziamento controllato dalla Commissione, il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (MESF), creato l’11 maggio 2010; interno al diritto Ue ma con solo 60 miliardi – totalmente insufficienti.

Il secondo era il Fondo europeo per la Stabilità Finanziaria (FESF): una società privata di diritto lussemburghese partecipata e finanziata dai membri dell’eurozona per una cifra più consistente (440 miliardi). Una società privata che deve prestare i soldi agli Stati per tutelare la loro stabilità finanziaria!

Il terzo è il nostro MES, creato a primavera del 2012, che li assumerà entrambi in seno. Ma come hanno agito?

Come si è detto, i tre fondi hanno erogato finanziamenti alla periferia Ue: Cipro, Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna. Si tratta di prestiti che, se come destinazione hanno il settore bancario, comportano l’indebitamento dei paesi riceventi. Indebitamento che comporta un pacchetto di riforme che ha colpito in modo sproporzionato i diritti del lavoro, alla casa, alla salute, i gruppi più vulnerabili, promuovendo privatizzazioni, licenziamento di  pubblici dipendenti e tagli alla spesa sociale.

Il meccanismo che ha comportato la dimensione coercitiva della austerità è stato la rateizzazione condizionale: i fondi non vengono elargiti tutti assieme o in base ad un automatismo, ma per tranche successive, avendo come precondizione l’adempimento delle riforme liberiste. La pressione dell’ansia di non ricevere più denaro costruisce una continuità della linea politica che prescinde dall’avvicendamento della leadership politica, per non parlare della volontà popolare. Una formula che si replicherà col PNRR. Altro elemento è stato la complicità della BCE e delle banche centrali ad essa associate che hanno agito al di fuori del mandato di insistita neutralità e indipendenza per usare il loro potere a favore dell’agenda politica promossa dall’Eurogruppo, dalla Commissione e dal MES.

Se un’intera generazione ricorderà le misure draconiane di austerità in Grecia, va tenuto presente che le somme prestate, la cui assegnazione ha comportato così caro prezzo sono rapidamente rientrate a casa: secondo un’analisi di Attac Austria il 77%, secondo una più recente stima dalla European School of Management and Technology (ESMT) di Berlino addirittura il 95% delle cifre è andata ai creditori bancari e privati.

Pochi sanno che formalmente il vero organismo a capo di tutto, condotto dal tedesco Klaus Reglin, era il MES.

 

Dall’emergenza alla normalizzazione

La chiusura della crisi ha lasciato tale organismo sostanzialmente senza un ruolo determinato. La frettolosa rabberciatura determinata dall’ansia di salvare gli interessi dominanti ha prodotto un assetto formalmente molto dubbio. Una proposta che si incaricava di dare una struttura più logica e compiuta era di integrare pienamente il MES sul piano giuridico nei trattati comunitari come “Fondo Monetario Europeo”, un po’ scimmiottando il FMI. Tale proposta, avanzata dalla Commissione fra il 2018-19 è caduta per varie difficoltà, ed ha lasciato sul terreno una proposta più ridotta che, pur conservando lo status attuale, avrebbe voluto conferirgli nuovi poteri e funzioni.

Un nucleo del nuovo ruolo è la normalizzazione. Il MES è stato costruito su misura per i paesi in crisi della periferia Ue, e la richiesta della sua assistenza è stata associata allo spettro dell’insolvenza, ragione per cui oggi nessun paese desidererebbe richiederla: determinerebbe la sfiducia di investitori, un abbassamento del rating, ecc. La riforma cerca di porre rimedio a tale situazione differenziando la modalità di finanziamento: una per chi rispetta i parametri di Maastricht (che avrebbe, secondo tale ottica, i “conti in ordine”) e una per chi non vi rientra. Per i primi non c’è il temibile memorandum con le riforme lacrime e sangue, ma una più blanda lettera di intenti. Per i secondi c’è la “cura” già riservata ai PIGS. Questo amplierebbe il raggio d’azione del MES potenzialmente a tutta l’Eurozona. La scelta su quale linea di credito adottare verrebbe però compiuta dallo stesso MES, che così avrebbe una importanza maggiore diventando il dominus della sostenibilità dei debiti di tutti, rubando un po’ di terreno alla Commissione. Al ruolo di arcigno guardiano verso gli indisciplinati affiancherebbe un volto di più benevolo supporter per chi ha difficoltà temporanee.

Altro punto della riforma è l’obbligo da parte dei membri a emettere obbligazioni di debito pubblico con clausole che ne rendano più facile la ristrutturazione. Con tale termine si intende una forma di default controllato – con il consenso di una maggioranza di creditori; maggioranza che verrebbe trovata più facilmente. Questa misura amplificherebbe la situazione di chi avesse difficoltà finanziarie, perché la eventualità di una ristrutturazione farebbe aumentare i rischi per i creditori, che potrebbero richiedere un interesse maggiore per prestarli allo Stato, inducendo una possibile spirale viziosa fra difficoltà finanziaria e aumento del rischio.

Il terzo punto è la possibilità da parte del MES di finanziare le banche in crisi. Dei tre pilastri della cosiddetta Unione bancaria sono andati in porto i due che riguardano (I) una vigilanza comune per gli istituti più grandi, e (II) norme che fanno ricadere l’onere di perdite su azionisti e obbligazionisti. Mancava invece l’accordo sulla garanzia comune dei depositi, incarnata dal Fondo di Risoluzione Unico. Quest’ultimo non ha assolutamente le risorse per far fronte a una crisi bancaria grave, e il MES sarebbe autorizzato a finanziarlo. L’obiezione politica a tale prerogativa è consistita nella possibilità di una scelta discrezionale sulle banche da salvare, oltre al fatto che anche con l’aiuto del Meccanismo di Stabilità i fondi non sarebbero in grado di far fronte a una crisi seria.

Il volto del MES riformato – se tali modifiche entrassero mai in vigore – non sarebbe quello di un ente completamente diverso, ma sarebbe qualcosa di più. Difficilmente è immaginabile che il trattamento di austerità possa essere inflitto con la stessa durezza della Grecia a paesi più grandi e in posizione geopoliticamente delicata come l’Italia; ma probabilmente funzionerebbe come elemento ulteriore degli ingranaggi del meccanismo Ue di controllo dei bilanci già rodato, in modo più soffuso e sistemico, senza dismettere la possibilità che torni ad assumere il volto arcigno verso eventuale “reprobi” meno politicamente problematici.

 

Quali prospettive?

Al momento in cui scriviamo la riforma sembra momentaneamente archiviata. Ma anche se così non fosse non finirebbe l’anomalia istituzionale che rappresenta.

La mancanza di un assetto più compiuto da un lato discende dalla divergenza degli interessi che guidano le politiche degli Stati membri; dall’altro resta un punto di forza per chi voglia non solo delegittimare qualcuno dei suoi elementi, ma la logica stessa di cui sono imbevuti, costitutiva dell’intero orizzonte Ue. La riforma del Patto di Stabilità e di Crescita, attualmente in itinere, lo conferma pienamente. Se tatticamente mettere nel mirino della critica una singola componente può essere profittevole, l’obiettivo finale rimane l’essenza mercatista e gerarchica della Ue.

Foto di svklimkin da Pixabay

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 52 di Febbraio-Marzo 2024: “Europa: a che punto è la notte?

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