Un solo passo

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di Giampiero Obiso (La Società della Cura)

«”Un solo passo”, penso, “E sarò dall’altra parte. Quando il mio piede toccherà il suolo al di là della frontiera, non sarò più lo stesso. Se faccio questo passo, sarò una persona illegale e il mondo per me non sarà più lo stesso”. Quella notte ho compiuto il passo e così è iniziata la mia odissea nell’illegalità». È una citazione dal bellissimo libro “Io sono confine”, di Shahram Khosravi, un iraniano riuscito ad arrivare in Svezia alla fine del suo lungo viaggio. Quel primo passo, per milioni di persone, è l’inizio di un cammino che non ha fine. Qualche anno fa, un ministro danese, riferendosi ai migranti “irregolari”, disse: “sono indesiderati, e se ne accorgeranno”. C’è poco di meglio per voler sintetizzare l’approccio comune alla biopolitica del confine, che pressoché ovunque è stata costruita ricorrendo a strumentari ormai ben noti.

Dall’”hostile environment” della May ai processi alle ONG, da Frontex alla comparsata della Von der Leyen in Grecia, a manifestare, con la propria presenza, il sostegno a chi difendeva con filo spinato e lacrimogeni il sacro confine d’Europa da orde di minacciosi invasori armati di passeggini e borracce, dagli accordi con la Libia e la Turchia al progetto britannico di deportazione in Rwanda, fino ad arrivare all’apartheid post invasione russa in Ucraina praticata alle frontiere con i paesi UE confinanti con Kiev, abbiamo visto budget miliardari, deliranti e immondi atti di demolizione dei diritti umani, e singolari condivisioni di intenti tra governi divisi su tutto tranne che su una cosa: respingere chi prova ad arrivare, deportare chi in qualche modo è riuscito a farcela, e rendere la vita impossibile a chiunque solo pensi di varcare il confine sbagliato. E se questo è il quadro, il processo, appena conclusosi in primo grado con una sentenza di assoluzione – “perché il fatto non sussiste” – per i volontari colpevoli di aver acquistato, nel 2016, nove biglietti di un autobus che, da Roma, doveva portare a un centro della Croce Rossa a Ventimiglia otto ragazzi sudanesi e un ragazzo del Ciad, non è che un piccolo mattone in una più grande e complessa costruzione.

Che il primo grado di questo processo si sia concluso con una sentenza di assoluzione non è una sorpresa. Abbiamo visto già molti casi in cui inchieste costruite su teoremi securitario-nazionali si sono rivelate per quel vuoto pneumatico che erano. Ma non sarà l’ultima inchiesta su chi si macchia del reato di solidarietà.

Il processo agli attivisti di Baobab Experience è un componente di un dispositivo più complesso, il cui funzionamento non sarà arrestato da un episodico incidente di percorso processuale. Perché, in una visione globale, la criminalizzazione della solidarietà non è che un corollario della criminalizzazione delle persone in movimento che non siano dotate di documenti sufficientemente altolocati nelle classifiche del Passport Index di Henley & Partners. O che, in altre parole, sono nate nella parte sfigata del pianeta.

Del processo ad Andrea Costa e agli altri attivisti coinvolti in un’inchiesta durata anni, e che ha visto impiegare tecniche investigative pensate per ben altri ambiti, molto è già stato detto e scritto, e poco c’è da aggiungere, se non che sarà molto interessante leggere, quando saranno disponibili, le motivazioni della sentenza. Una lettura, però, quella delle motivazioni, che suggeriremmo di accompagnare con quella della lettura di un’inchiesta di Zach Campbell, di The Intercept, disponibile in italiano su Internazionale (https://www.internazionale.it/reportage/zach-campbell/2021/05/03/italia-migranti-ong-strategia), in cui si ricostruiscono i passaggi che hanno portato la Direzione Nazionale Antimafia ad elaborare strategie investigative di “contrasto all’immigrazione clandestina e al traffico di esseri umani” che mutuavano tecniche e protocolli operativi le cui radici si trovano nel lavoro di magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che per alcuni ben potevano essere adottate per soddisfare le pulsioni di ministri dell’interno in crisi di risultati, da Minniti ai suoi epigoni. Andrea Costa, a pochi giorni dalla sentenza, è stato invitato al Festival Sabir, tenutosi quest’anno a Matera. Nelle conclusioni dei lavori di Sabir è stato annunciato l’avvio di una campagna per una modifica delle norme in tema di “favoreggiamento all’immigrazione clandestina”. Il processo al Baobab è solo un piccolo ingranaggio di un sistema enorme. Se diventasse anche un piccolo granello di sabbia, se un felice attrito iniziasse a incepparne il funzionamento, l’enorme spreco di risorse investigative e finanziarie che ha prodotto un’inchiesta iniziata almeno nel 2016, e le sofferenze che le persone coinvolte nel processo hanno dovuto e stanno ancora dolorosamente pagando sulla propria pelle, potrebbero avere nonostante tutto, nella logica globale delle cose, un loro senso. E, tornando alla citazione di Khosravi da cui siamo partiti, chi scrive ha avuto la possibilità, per un paio di anni, di condividere sul campo l’esperienza dei volontari di Baobab Experience. E si ricorda ancora molto bene di cosa significhi guardare negli occhi quei fratelli e sorelle che, dopo aver fatto quel primo passo, passano ogni attimo della propria vita convivendo con la consapevolezza che il passo più duro è sempre il successivo, e che bisognerà ancora farne milioni. Che sia acquistando un biglietto di un autobus o accompagnando qualcuno in un ufficio immigrazione di questura, o provando a trovare un’alternativa, che quasi sempre non c’è, a una tenda su un marciapiede, alleggerire il peso di quei passi era, è e resta la cosa giusta da fare, con buona pace degli strateghi degli apparati di turno.

Foto: Francesca Mazzara: “Assolto perché il fatto non sussiste!” – Baobab Experience

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 50 di Giugno-Luglio 2022: “Guerra e migranti, guerra ai migranti

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