Venezuela e Ecuador, due esperienze sotto attacco

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di Geraldina Colotti

In Venezuela, in molti hanno recentemente diffuso questo brano tratto da La casa degli spiriti, di Isabel Allende. Un romanzo del 1982 in cui l’autrice cilena descrive gli effetti del sabotaggio messo in atto contro il governo di Salvador Allende, prima del colpo di stato dell’11 settembre 1973.

L’organizzazione era una necessità, perché la strada verso il Socialismo molto presto si trasformò in un campo di battaglia (…) la destra metteva in campo una serie di azioni strategiche volte a fare a pezzi l’economia e seminare il discredito contro il Governo. La destra aveva nelle sue mani i mezzi di diffusione più potenti, contava con risorse economiche quasi illimitate e con l’aiuto dei ‘gringos’, che mettevano a disposizione fondi segreti per il piano di sabotaggio. A distanza di pochi mesi sarebbe stato possibile osservarne i risultati. Il popolo si trovò per la prima volta con sufficiente denaro per soddisfare le proprie fondamentali necessità e per comprare alcune cose che sempre aveva desiderato, ma non poteva farlo, perché gli scaffali erano quasi vuoti. La distribuzione dei prodotti cominciò a venire meno, fino a quando non divenne un incubo collettivo. Le donne si svegliavano all’alba per prepararsi alle interminabili file, dove al massimo avrebbero potuto acquistare uno scarno pollo, una mezza dozzina di pannolini o qualche rotolo di carta igienica. Si produsse l’angustia da scarsità, il paese era scosso da ondate di dicerie contraddittorie che mettevano in allerta la popolazione sui prodotti che sarebbero venuti a mancare e la gente cominciò a comprare qualsiasi cosa trovasse, senza misura, preventivamente. Si finiva per mettersi in fila senza sapere ciò che si stava vendendo, solo per non perdere l’opportunità di comprare qualcosa, anche quando non c’era bisogno. Cominciarono a sorgere i professionisti delle file, che per una somma ragionevole conservavano il posto agli altri, i venditori di dolciumi che approfittavano della folla per vendere le loro caramelle e quelli che affittavano le coperte in occasione delle lunghe file notturne. Si scatenò il mercato nero. La polizia provò ad impedirlo, ma era come una peste che spuntava fuori da tutti i lati e per quanti sforzi facesse per ispezionare le auto ed arrestare coloro che portavano contenitori sospetti non poteva evitarlo. Persino i bambini trafficavano nei cortili delle scuole. Per l’ansia di accaparrarsi i prodotti, avvenivano confusioni: chi non aveva mai fumato pagava qualsiasi prezzo per un pacchetto di sigarette, e chi non aveva bambini litigava per contendersi un barattolo di alimenti per lattanti…

Una situazione che richiama fortemente quel che sta accadendo in Venezuela. Solo che nel paese bolivariano il nemico è più infido e invisibile. Una decina di oligopoli, che controllano la distribuzione di importanti prodotti della canasta basica (il paniere di beni a prezzi calmierati) importano i beni usando dollari a prezzo preferenziale ottenuti dal governo (in Venezuela la moneta è il bolivar) e li nascondono o li dirottano al mercato nero dove vengono venduti a un prezzo stellare e non più come prodotti regolati.

Una situazione complessa in un paese petrolifero ancora troppo dipendente dalle importazioni, complicata da una poderosa campagna di discredito a livello internazionale e amplificata anche in Italia. L’obiettivo è quello di accreditare l’idea che in Venezuela sia in corso una crisi umanitaria causata da un governo incapace: per creare una situazione simile a quella determinatasi in Libia con l’intervento militare, e con le conseguenze che sappiamo.

Il governo Maduro, a quattro anni dalla morte di Hugo Chavez, conta soprattutto sul controllo popolare, sull’organizzazione dal basso e sulla maturità del popolo venezuelano. La democrazia “partecipativa e protagonista” è l’asse centrale del socialismo bolivariano, la cui crescita dovrebbe svuotare dall’interno la vecchia impalcatura dello stato borghese. Una visione che abbraccia anche l’azione delle ambasciate bolivariane nei vari paesi, impegnate in una “diplomazia dal basso” poco convenzionale.

“Tutto il potere ai Clap” è ora la parola d’ordine, che richiama quella della rivoluzione sovietica a 100 anni dalla sua nascita: “Tutto il potere ai soviet”. Clap sta per Comites Locales de Abastecimiento y Produccion (Comitati locali di rifornimento e produzione). Contro l’accaparramento, il mercato nero e il rincaro dei prezzi, i prodotti sussidiati vengono portati direttamente a casa dai comitati popolari.

I Clap non sono però solo uno strumento di pronto intervento, ma un progetto di largo respiro che mira a sviluppare l’autonomia produttiva e l’auto-organizzazione politica. Sono organizzazioni comunali create un anno fa all’interno delle “comunas” per distribuire alimenti base a prezzi sussidiati. Sono regolarmente registrati al Ministero delle Comunas e hanno anche un’omonima rivista di analisi e reportage, scaricabile dal web.

Molti dirigenti del Partito socialista unito del Venezuela (Psuv) si adoperano nella vendita casa per casa, e così pure fa la Milizia popolare e le Forze armate bolivariane, perché “l’unione civico-militare” è un altro asse portante della “democrazia partecipativa e protagonista”, trincea collettiva e organizzata contro la “guerra economica”. Centrale è anche l’attività dei media comunitari, anch’essi progetti di partecipazione e organizzazione politica e culturale. Un tentativo di contrastare il latifondo mediatico che si unisce alle esperienze di economia sociale, cooperativistica e autogestita. L’unico vincolo previsto dalla legge per aprire una radio o una televisione comunitaria – che avrà anche un suo giornale di quartiere – è quello che il 70% dei contenuti siano gestiti dalle organizzazioni territoriali.

Ma il vero motore del socialismo bolivariano sono le donne. Oggi vedono minacciate le proprie conquiste da un sabotaggio quotidiano che le obbliga a lunghe code davanti ai supermercati e a discutere di come procurarsi i prodotti anziché di come mandare avanti la società. E sono in prima fila nell’organizzazione dei Clap.
L’8 marzo del movimento Ni una menos, in Venezuela ha portato in piazza anche questi contenuti, insieme alla denuncia dei femminicidi politici, che aumentano nei luoghi in cui le donne dirigono le battaglie e la politica, incrociando in modo fecondo lotta di genere e lotta di classe.

Anche in Ecuador è forte l’allerta per gli attacchi destabilizzanti contro la “rivoluzione cittadina”. Il 2 aprile ci sarà il ballottaggio per le presidenziali e le destre cercano il colpo grosso, forti dell’elezione di Trump, dei nuovi piani di riarmo e del finanziamento alle Ong a guida Cia, ampiamente rinnovato. In base all’ormai famoso manuale di Gene Sharp per promuovere le “rivoluzioni colorate”, obiettivo prioritario è spezzare il rapporto di fiducia tra le organizzazioni popolari e i governi progressisti che, nel nuovo secolo, hanno dettato un’agenda diversa da quella del neoliberismo voluto da Washington e dalle grandi istituzioni internazionali. Per questo, occorre minare la credibilità dei presidenti, amplificando gli errori o le debolezze dei loro programmi. E togliere linfa alle organizzazioni popolari.

Pur essendo un paese dollarizzato, l’Ecuador ha messo in campo un “nuovo esperimento costituzionale” che prevede la partecipazione della società nei diversi livelli di governo: “attraverso organismi composti sia da autorità che da rappresentanti della società chiamati a promuoverne gli obiettivi, come quello del rafforzamento della democrazia mediante meccanismi permanenti di trasparenza, bilancio e controllo sociale, e la partecipazione protagonista nella gestione pubblica”.

Di recente, è venuto in Italia Pedro Paez, presidente dell’Anti trust ecuadoriana, economista della Nuova architettura finanziaria attivata negli organismi regionali come l’ALBA sulla base dell’interscambio solidale, dell’economia sostenibile e del controllo cittadino. Al centro sociale Spartaco di Roma, un luogo attivo nei percorsi di partecipazione popolare delle periferie, Paez ha spiegato che l’organismo da lui presieduto ha una funzione di trasparenza, organizza il controllo sociale del mercato e della concorrenza a partire dalla partecipazione popolare nell’ambito del quinto potere dello stato, Transparencia y Control Social. Il suo compito è quello di attivare meccanismi di protezione e difesa della popolazione: con le assemblee produttive, l’Osservatorio degli utenti, la firma di un codice etico con distinti gruppi di imprese…
Pur rimanendo dentro il mercato – dice Paez – si possono scardinare i grandi meccanismi monopolistici sviluppando una logica di responsabilità sociale cooperativa che dia spazio alla produzione nazionale e alle piccole e medie imprese”.
Ha raccontato come, in soli tre anni, i piccoli produttori indigeni e afrodiscendenti sono riusciti a portare i loro prodotti nei grandi supermercati, aprendo brecce nelle grandi catene commerciali. Un beneficio economico ma anche simbolico.
“Nel 2015 – ha detto ancora – proprio i comitati popolari, le casalinghe consapevoli, hanno impedito che le grandi imprese imponessero un’impennata dei prezzi con il pretesto di una sovrattassa doganale: una speculazione simile a quella messa in atto contro Allende e ora contro il Venezuela”.

E così, dopo il devastante terremoto che ha colpito l’Ecuador nell’aprile del 2016, sono stati i comitati d’emergenza alternativi a dimostrare che la ricostruzione del territorio non aveva bisogno delle ricette imposte dal Fondo Monetario Internazionale.

L’indicazione concreta della “rivoluzione cittadina” è quella di “trasformare dal basso il mercato, le banche, la finanza, coniugando i saperi antichi alle nuove conoscenze”. Per questo, Paez è venuto a proporre ai comitati che si battono per la difesa dei beni comuni, contro l’imposizione dei brevetti, dei trattati internazionali e del pareggio di bilancio, una campagna globale contro il debito estero e per un’economia solidale: che scardini, con la democrazia partecipata, la dittatura del dio mercato e i meccanismi speculativi.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 28 di Marzo-Aprile 2017: “Dov’è finita la democrazia?” 

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