di Giampiero Obiso (Società della Cura – gruppo Migrazioni)
Se c’è una cosa che abbiamo capito di non avere capito, in questi ormai due anni di pandemia, è come misurare i danni collaterali. Non troppo difficile tenere il conto dei decessi, dei ricoveri e delle terapie intensive. Abbastanza agevole verificare l’impatto sul prodotto interno lordo e sui vari indicatori economici. Meno, molto meno, calcolare i danni sul piano sociale e sanitario. Se poi parliamo di diritti umani, l’esercizio diventa impossibile.
Nel 2017 ebbi la possibilità di visionare confidenzialmente i risultati di un sondaggio riservato, commissionato da un partito politico, con cui si voleva misurare il cambiamento di umore degli italiani verso i migranti e verso chi li salvava. Fu impressionante – avevamo Minniti agli affari interni, in quei giorni – leggere come nel giro di pochi mesi si fosse verificato uno spostamento verso posizioni identitarie e xenofobe di portata così imponente, trasversale, da lasciar pensare già allora che si trattasse di un fenomeno apparentemente (e abbiamo avuto solo conferme successive in tal senso) irreversibile.
La strada quindi era già tracciata, e il Covid è solo stata un’occasione da cogliere al volo per rendere tutto più facile.
Cosa sia questo tutto diamolo per scontato. L’elenco degli orrori è noto, e solo limitarsi agli eventi politici degli ultimi mesi, a livello nazionale, europeo e globale, porterebbe via spazio e non aggiungerebbe nulla di sostanziale a quanto i lettori di questo testo sapranno già benissimo. Basta un qualunque bollettino quotidiano di “Are you Syrious” o una qualunque mail della newsletter di ECRE per farsi un’idea.
Eravamo già in una crisi del sistema di codificazione e tutela dei diritti umani, e la pandemia ha solo accelerato dinamiche già in atto. Che si parli dello svuotamento di significato delle convenzioni internazionali, dell’appiattimento delle politiche migratorie europee sulla monodimensionalità securitaria modello Frontex, del continuo abbassamento del limite di ciò che il comune sentire considera politicamente e disumanamente accettabile, il risultato non cambia, e il Covid ha aggiunto solo nuovi pretesti a strumentari già familiari alla politica ed alle istituzioni.
Se allora questo è il tempo del bilancio, si fa presto a tirare le somme. Meno facile è riflettere invece sul che fare.
La Società della Cura è nata attorno a un’idea forte di convergenza. È una parola che, tra di noi, tendiamo forse a utilizzare un po’ per consuetudine, col rischio di perdere, nell’abitudinarietà del suo uso, il senso e la dimensione del lavoro collettivo che è necessario se si vuole trasformare in significato politico quelle quattro sillabe.
Ma il principio, e la sua forza, rimangono. Se è un intero sistema che va rifiutato e superato, la porta di uscita dalla comfort zone delle nostre forzate specializzazioni era l’unica strada da percorrere. E la difficoltà di chi si occupa di temi legati alla migrazione non è più lieve di quella di chi affronti i temi del lavoro, dell’eguaglianza, del genere, dell’ambiente, della salute, dei beni comuni.
Come praticare convergenza nell’ambito “specialistico” di quella meravigliosa comunità di persone e soggettività che ancora oggi non si arrendono all’ineluttabilità dell’orrore è il tentativo che il gruppo migrazioni sta cercando di mettere in atto.
Lo abbiamo fatto dando vita ad una riflessione comune nella stesura del Recovery Planet, stiamo cercando di farlo tenendo insieme ed ampliando una rete di rapporti che dia continuità a quel lavoro, ma intendiamo soprattutto farlo nel tentativo – e torniamo ai bilanci – di creare le condizioni per un momento di riflessione comune.
L’elenco dei soggetti e delle reti che lavorano sul campo sul fronte delle migrazioni sarebbe molto più lungo di questo articolo. Innumerevoli sono le pratiche, le campagne, le iniziative, le progettualità che negli anni hanno visto e vedono questo mondo prendere posizione contro la logica della sacrificabilità di ogni nostro fratello e sorella che abbiano avuto la sorte di nascere a sud della mediana del Passport Index Ranking.
Ma le foto di ogni altro Alan Kurdi, oggi, non fanno più notizia. Serve allora, forse, provare a imboccare l’uscita d’emergenza dalla nostra Comfort Zone, provare a rimettere in moto il carro della convergenza, e avviare un momento di ascolto reciproco e riflessione strategica comune.
Vorremmo trovare luogo e tempo per domandarci camminando. E chiederci se è proprio impossibile mettere a fattor comune due o tre iniziative forti attorno alle quali, consensualmente, convergere per aumentare efficacia, capacità operativa e possibilità di generare cambiamento e praticare resistenza all’orrore che avanza.
Lavoreremo, nei prossimi mesi, per farci raccontare idee. Con l’umiltà di chi sa di non aver nulla da insegnare a chi ogni giorno pratica e non parla, e con la disponibilità a fare ogni passo necessario affinché sia olio e non sabbia a finire negli ingranaggi. Perché una nuova macchina ci serve, e può nascere solo se in tanti decidiamo di volerla, progettarla e costruirla insieme.
Per vendere più cara la pelle. Sono questi i nostri buoni propositi.
Photo Credits: “Sciopero migranti #2” by bandini’s.on.fire is licensed under CC BY-NC-SA 2.0
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 48 di Gennaio-febbraio 2022: “Cosa bolle in pentola?“