di Livio Pepino (ex-Magistrato, direttore di Volere la Luna)
La democrazia liberale come l’abbiamo studiata sui sacri testi dei classici e lo Stato costituzionale di diritto edificato sulle ceneri della seconda guerra mondiale sono in crisi profonda, forse irreversibile. A provocarla sono fenomeni eterogenei, talora opposti ma convergenti nel produrre tale esito: la globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia e la sua concentrazione senza precedenti, il trionfo di un liberismo privo di limiti e correttivi, le grandi trasformazioni tecnologiche e del mondo del lavoro, i nazionalismi e molto altro ancora (tra cui, da ultimo, anche l’esplosione della pandemia e la desolante impreparazione nell’affrontarla). L’esito è che la democrazia politica che abbiamo conosciuto e praticato nel Novecento si rivela sempre più incapace di dare risposte soddisfacenti alle richieste di rappresentanza, di dignità e di uguaglianza di ampie fasce di popolazione e che ciò produce fenomeni crescenti di disaffezione, di disgregazione, di reazioni a volte anche violente. È un quadro noto e ampiamente analizzato da politologi e studiosi.
Meno esplorata è, invece, l’altra faccia della medaglia, cioè il modo in cui le democrazie in crisi reagiscono di fronte alla delegittimazione crescente, al dissenso radicale, alla protesta, alla contestazione che si pone fuori dai giochi prestabiliti delle parti, al pensiero e al comportamento diversi che non accettano di omologarsi (cioè ai fenomeni che rappresentano, oggi, la vera e unica opposizione). E invece è proprio su questo crinale che sta emergendo, anche in Europa o ai suoi confini, un nuovo modello di democrazia autoritaria (come taluno la definisce, con un evidente ossimoro) che mantiene ferme alcune forme della democrazia classica (come le elezioni, più o meno regolari, e la presenza di Parlamenti, più o meno vitali) ma erode progressivamente le libertà e le garanzie dello Stato di diritto. È un processo complesso, non lineare e in divenire, che procede come un fiume carsico e con diversità anche profonde. Ciò che accade in Francia, in Spagna, nel Regno Unito o in Italia è incomparabile con la situazione ormai radicata della Polonia, della Russia o della Turchia e sarebbe sbagliato ignorarlo. Ma altrettanto improprio sarebbe non cogliere le tendenze in atto in tutta Europa verso la trasformazione dello Stato sociale in Stato penale, la crescita – in quantità e in qualità – degli interventi repressivi nei confronti del nemico interno, la dilatazione (spesso incontrollata o addirittura favorita) del potere degli apparati, il deperimento del sistema delle garanzie e del ruolo dei Parlamenti. Alcuni fenomeni sono esemplari.
La più rilevante opposizione del nuovo millennio è stata il movimento dei movimenti per un altro mondo possibile. Ebbene, contro quel movimento è stata realizzata in Europa una repressione capillare e sistematica. In Italia il momento decisivo, dopo la prova generale effettuata a Napoli nel marzo 2001, è stato a Genova tra il 20 e il 23 luglio dello stesso anno e ha visto convergere strumenti e tecniche a cui si è poi fatto ricorso ampiamente negli anni successivi (l’uso abnorme della forza da parte delle polizia, l’impiego della violenza e della tortura come tecniche per umiliare e annientare il nemico, la saldatura degli apparati con settori trasversali della politica, l’arruolamento della stampa embedded come truppa ausiliaria della repressione, l’assunzione da parte di ampi settori della magistratura di un ruolo diretto di garanti dell’ordine pubblico e via elencando). Venti anni dopo è ancor più chiaro di allora, anche alla luce dei successivi percorsi dei protagonisti di quei giorni (a cominciare da quello del capo della polizia De Gennaro), che le cariche e i pestaggi per le strade, la “macelleria messicana” della Diaz e le centinaia di arresti arbitrari (per lo più non convalidati dalla magistratura) non furono incidenti o forzature ma un cambio di paradigma, una scelta consapevole e deliberata, la chiusura definitiva della stagione iniziata con la sindacalizzazione e la smilitarizzazione della polizia.
L’espulsione violenta e sistematica del conflitto dalla scena pubblica è stata, da allora, una delle costanti della politica di tutti i governi (e delle maggioranze che li hanno sostenuti). Con un caso di scuola: quello della Valle di Susa, dove l’esistenza di un grande movimento popolare di opposizione alla nuova linea ferroviaria Torino-Lione è stato trasformato da questione politica e democratica in problema di ordine pubblico. Lo ha scritto con efficace sintesi il Tribunale permanente dei popoli, nella sentenza pronunciata al riguardo l’8 novembre 2015: «si sono esclusi gli individui e le comunità locali da ogni procedura effettiva di partecipazione nella deliberazione e nel controllo della realizzazione delle opere, simulando anzi procedure di partecipazione fittizie e inefficaci; non si è dato corso ai procedimenti attivati nei tribunali per far valere i diritti di accesso alla informazione e alla partecipazione nei processi decisionali; […] e c’è stata la diffusione di informazioni contenenti falsità e manipolazione dei dati relativi alla necessità, alla utilità, all’impatto dei lavori; la simulazione di un processo partecipativo; l’adozione di misure legislative aventi come obiettivo l’esclusione della partecipazione dei cittadini e delle comunità locali; la strategia di criminalizzazione della protesta con pratiche amministrative, legislative, giudiziarie, di polizia, che includono anche la persecuzione penale sproporzionata, la imposizione di multe eccessive e reiterate e l’uso sproporzionato della forza». Anche in questo caso ciò è avvenuto con un impiego spropositato di forze dell’ordine (e dell’esercito), con la militarizzazione del territorio, con il sostegno pressoché totale della stampa e con un’azione repressiva della magistratura di dimensioni abnormi per numero di indagati, qualità delle imputazioni, impiego di misure cautelari, dilatazione delle ipotesi di concorso di persone nel reato, entità delle pene inflitte e finanche – come nel caso del processo intentato contro Erri De Luca – riesumazione del delitto di apologia di reato.
Quando il conflitto sociale, negli ultimi anni, è tornato anche nei luoghi di lavoro, soprattutto nei settori della logistica e dei lavoratori migranti, le pratiche di repressione e criminalizzazione si sono estese anche lì, fino all’uso intimidatorio di lacrimogeni contro gli scioperanti, alla riscoperta del “delitto di picchettaggio” e alla estensione, anche in questo caso abnorme, della responsabilità a titolo di concorso. Oggi si contano di nuovo a centinaia i lavoratori sottoposti a processo penale per violenza privata, per resistenza a pubblico ufficiale e per il delitto di blocco stradale ripristinato dal decreto legge 213/2018.
E, poi, i migranti. La scelta politica effettuata da maggioranze politiche trasversali è stata quella non solo di bloccarne in ogni modo l’arrivo (anche a costo di vere e proprie stragi in mare e di numerose morti ai confini) ma anche di fare terra bruciata intorno a loro, diffondendo il messaggio che le organizzazioni impegnate nel soccorso in mare e persino i giornalisti che ne documentano le attività sono collusi con i trafficanti, corrotti e, magari, al soldo di potenze straniere. Ciò a sostegno di una impostazione nella quale le campagne xenofobe della Lega si sono intrecciate con gli strappi del ministro Minniti (padre, oltre che degli accordi con la Guardia costiera libica, del codice di condotta per le ONG), con la propaganda di Di Maio (a cui si deve, tra l’altro, l’appellativo «taxi del mare» attribuito alle navi impegnate nel salvataggio dei naufraghi) e con le iniziative marcatamente repressive di diverse Procure, da Catania a Trapani e a Locri nei confronti di ONG o di esperienze simbolo dell’accoglienza, come quella di Riace. Il tutto con l’appoggio o il silenzio complice di gran parte della stampa indipendente.
Fin qui i fatti, alcuni fatti, tra i quali, pur nella loro eterogeneità, si intravede un filo rosso: l’insofferenza nei confronti del dissenso e dell’opposizione radicale e la scelta di escluderli dalla scena politica attraverso la rimozione, la criminalizzazione, la repressione. Ma così – è evidente anche se ignorato dal discorso pubblico – la democrazia cessa di essere la casa di tutti e assume connotazioni autoritarie e verticistiche che ne sono, in realtà, la negazione. Parallelamente, le libertà diventano privilegi, alla pari dei beni materiali, disponibili a dismisura per pochi ricchi sempre più ricchi e negati alla maggioranza delle donne e degli uomini (mentre i codici dei galantuomini diventano, anche formalmente, diversi da quelli dei barbari, dei marginali, dei ribelli, destinatari di nuove fattispecie di reati, di pesanti aggravamenti delle pene previste e finanche di crescenti divieti di manifestare).
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 48 di Gennaio-febbraio 2022: “Cosa bolle in pentola?“