Sardine 1. La riconquista del mondo reale

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di Pino Cosentino

 

Sardine. Sindrome di Procuste. La pentola.

Forse è esagerato richiamare una specifica patologia per inquadrare i giudizi sprezzanti nei confronti di questo fenomeno, che potrebbe evolvere in un movimento se riuscisse a tradurre “uno stato d’animo” in contenuti e obiettivi. Chi evidenzia, ridicolizzandoli, i limiti politici delle sardine, sembra non comprendere che la politica, intesa come affare comune di tutti i cittadini, è passione e emozione, prima ancora di essere ragionamento. La partecipazione politica ha innanzi tutto un fondamento valoriale, e perfino estetico. Il singolo agisce e reagisce seguendo percorsi prevalentemente emozionali. Ciò non ci esime dal compito di elaborare progetti politici fondati su analisi razionali, ma sapendo che la realtà sociale è un fiume continuamente creativo in cui, direbbe il grande Eraclito, è impossibile immergere due volte le mani trovando la stessa acqua.

Il linguaggio delle sardine, per ora, esprime uno stato d’animo. Eravamo in pentola, ora siamo liberi. Basta odio e violenza nel dibattito pubblico. Queste e altre simili espressioni si possono interpretare in molti modi. Ma puntano il dito essenzialmente sulla comunicazione politica, su quanto ha di artificioso, manipolatorio e falso sia rispetto ai reali problemi politici, sia rispetto al normale sentire dei cittadini. I quali vengono rinchiusi in una realtà fittizia (la pentola), creata dalla narrazione politica.

In un sistema rappresentativo gli specialisti dovrebbero essere gli eletti a tutti i livelli di governo e sarebbe loro compito ricondurre le emozioni in un alveo di ragionevolezza. Accade invece il contrario: i cittadini assistono sbigottiti a un dibattito pubblico sopra le righe, passionale all’eccesso, ma singolarmente sfasato rispetto alla vita reale. Si intravvedono retroscena inquietanti, si intuiscono interessi occulti, sceneggiate, commedie montate ad arte. Le sardine sembrano dire: la società siamo noi, la politica siamo noi. Eccoci. Noi siamo la realtà, non “loro”. Siamo uscite/i dalla pentola per incontrarci in piazza e riconoscerci. Non vogliamo tornare nella pentola di una politica che non ci rappresenta.

Qui non c’è nessun progetto politico. C’è l’espressione di un disagio, di un malessere. Ogni esito è possibile. Per molti, può essere l’inizio di un percorso. Vedremo. Ma giudizi stroncanti oggi non hanno alcun senso a meno che non si abbia una concezione elitistica della politica, per cui ogni intrusione di comuni cittadini sulla scena politica comporta un peggioramento qualitativo della politica stessa.

E’ un punto di vista che implica una oggettivizzazione completa della realtà sociale. La società può essere studiata, compresa e guidata come un qualunque oggetto. Non c’è l’idea che la società parli, pensi, agisca. Ma la società non è un oggetto (una pentola piena di sardine) soprattutto se le sardine decidono di uscire dalla pentola e di affermarsi come soggetto. Il grosso limite delle sardine è di essere appena nate. Tuttavia un punto l’hanno colto. In pieno, dimostrando sicuro discernimento, più di tanti professionisti e commentatori: e cioè la pericolosità di Salvini e di ciò che egli rappresenta, nel paese e nella classe dirigente.

I sondaggi divulgati dai principali media indicano come vincente, se  si votasse ora,  lo schieramento detto convenzionalmente di centrodestra, guidato dalla coppia fratelli-coltelli Salvini-Meloni.  In alternativa, c’è sempre l’accrocco sinistra volteriana-M5S, che sta alla Prima Repubblica come Chang Kai Shek stava a Sun Yat Sen, un’accozzaglia di bande corsare. L’alternativa democrazia/barbarie è già qui, oggi, nel tempo che stiamo vivendo, nell’aria che stiamo respirando.

Ma vorrei spiegare ora perché democrazia significhi inevitabilmente socialismo, perché “popolo” sia un concetto necessario e infine perché l’organizzazione del popolo sia il problema principale.

Poiché i primi nei sondaggi sembrano ispirarsi ai “valori” di un tradizionalismo politico, sociale ed etico precedente alla rivoluzione francese, il loro sarebbe il secondo governo, dopo il breve e sanguinoso esperimento Tambroni nel 1960, esplicitamente avverso ai valori fondanti della Repubblica, fissati dalla Costituzione. Ma l’eventuale tenuta dello schieramento opposto non cambia molto il quadro, non perché liberalismo e fascismo siano uguali, ma perché c’è una convergenza nelle cose al di là dei veli ideologici che le ricoprono.

Il compromesso – La Costituzione del ’48

Stiamo assistendo alla chiusura di un ciclo storico inaugurato con la Costituzione del ’48. Essa sanciva un compromesso – ovviamente asimmetrico – tra lavoro e capitale. Puntava sulla possibilità di conciliare i rispettivi interessi, nell’ambito di un sistema politico liberal-democratico saldamente ancorato all’Occidente guidato dagli USA. L’Europa spaccata in due, tra democrazia e monopartitismo, tra economia di mercato ed economia pianificata, divenne nella sua parte occidentale il terreno di un singolare esperimento, un’espansione del welfare e dei diritti sociali e civili quali il mondo non aveva mai visto prima. Questo progetto ha funzionato. I partiti maggiori hanno mediato, le “ali” – i sostenitori di politiche intransigenti a favore del capitale o del lavoro – sono state tagliate. L’Occidente ha vinto la guerra fredda, l’Urss si è sciolta, la Cina ha unito, e con grande successo, dittatura del partito con turbo-capitalismo. Ogni alternativa al capitalismo e al potere del denaro è venuta meno.

La coesistenza pacifica tra capitale e lavoro è divenuta la disfatta del lavoro, che ha perso non solo  peso economico, ma anche dignità. Davanti al denaro esso deve inchinarsi, trasformato da fattore produttivo/risorsa in mero costo, fastidiosa voce di bilancio da comprimere il più possibile.  Il trionfo globale dell’ideologia neo-liberale ha cambiato la scala dei valori. Essa presenta l’economia, quando sia regolata da mercati concorrenziali, come il luogo dell’efficienza e della giustizia. In essa il successo premia i meritevoli, mentre l’uso inefficiente delle risorse porta inevitabilmente al fallimento, un’igiene benefica e utile a tutti. L’eventuale responsabilità di inefficienze, sprechi, fallimenti, e di ingiustizie sociali ricade su chi, dal di fuori dell’economia di mercato, esercita poteri intralciando il corretto funzionamento dei mercati: lo Stato, monopoli pubblici o privati, le organizzazioni sindacali e ogni tipo di corporazione.

Il neoliberalismo da ideologia a religione

Qualcosa però deve essere andato storto, perché alcune primarie società finanziarie USA, nei primi anni del 2000, hanno accumulato perdite così ingenti che, secondo le logiche di mercato, non avevano alternative al fallimento. Infatti uno dei maggiori istituti finanziari mondiali, la Lehman Brothers, fu lasciata fallire. Ma a questo punto ci si rese conto che il contagio rischiava di estendersi all’intero sistema economico globale e che l’ortodossia neo-liberale avrebbe portato al collasso l’economia di tutto il pianeta…  Fu così adottata la vecchia ricetta. L’intervento dello Stato fu riammesso senza però alcun cambiamento della retorica ufficiale. Compito dello Stato fu dunque di ripianare le perdite della finanza privata, con i soldi dei cittadini, per permettere agli azionisti delle banche di continuare ad accumulare utili, come se nulla fosse stato.

Come ogni religione, il neo-liberalismo si è trasformato in un ideale da attuare solo se le circostanze e i rapporti di forza lo permettono. I soggetti forti impongono regole, che essi stessi però si riservano di seguire secondo le convenienze (proprie).

E’ diventato palese che il compromesso tra capitale e lavoro “funziona” – a vantaggio soprattutto del primo – solo in presenza di un’espansione continua dell’economia, perché il capitale esige comunque il suo tornaconto, se occorre anche a spese del lavoro. Se i meccanismi di valorizzazione del capitale per qualche motivo rallentano o addirittura si fermano, il livello dei profitti si mantiene accettabile per le classi proprietarie comprimendo i redditi da lavoro, o prelevando direttamente denaro dalla cassa comune (l’erario)  e trasferendolo ai detentori del capitale.

La difficoltà consiste nell’identificare la contraddizione principale. La società odierna presenta frequenti scambi di ruoli e di posizioni. Chi è oppresso in una posizione è sfruttatore e oppressore in un’altra, nei confronti di altri soggetti.

La finanziarizzazione della società ha fatto la sua parte.

Esiste una stratificazione funzionale (popolo) e una contrapposizione frontale tra popolo ed élite. Solo quest’ultima dà origine a una vera e propria lotta di classe, che oggi non è combattuta, perché le tensioni si scaricano all’interno del popolo, tra i segmenti della stratificazione, lasciando indenne l’élite che realmente comanda il mondo. Essa vive nell’Olimpo, al culmine di catene di comando così lunghe che è difficilissimo risalirle fino alla mano che ne strige l’estremo anello. Allo stesso modo le piante parassite, come la vitalba, affondano le radici così in profondità nel terreno da risultare inestirpabili.

La mobilità dei ruoli ha reso opaco l’insieme dei rapporti sociali, incerta la definizione dell’identità sociale in termini di “classe”. Ciò costituisce un’ottima base per il populismo contemporaneo, che può facilmente costruire un’identità unificante fittizia, per esempio attorno al mito dell’invasione.

Ecco l’importanza della comunicazione e di fenomeni come le sardine. “Uscire dalla pentola” significa uscire dal mondo virtuale, incontrarsi in piazza, respirare l’aria aperta della realtà, mettersi in cammino verso la verità.

Il rischio è di entrare in un’altra pentola, soffocante e falsa come la precedente.

Costruire un sistema di relazioni autentiche è l’unica via per rendere trasparente la realtà sociale.

Possiamo chiamarla “organizzazione” (popolare)?

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 43 di Gennaio- Febbraio 2020. “La diseguaglianza e le rivolte