di Decide Roma – Decide la città
A sei mesi dall’insediamento, un’analisi della paralisi della giunta Raggi
A sei mesi dall’insediamento della giunta Raggi, è necessario – per chi a Roma costruisce quotidianamente spazi di democrazia e partecipazione, cultura e solidarietà – riprendere la parola sullo “stato dell’arte”, sulla qualità e sull’efficacia del lavoro fatto e delle scelte prese dalla giunta romana, investita da un voto molto favorevole come quello dell’ultimo ballottaggio e, ciononostante, nel pieno della paralisi. Ebbene, interpretare la crisi e i continui smottamenti del governo Raggi non è un compito semplice: se c’è una cifra distintiva della giunta capitolina, quella è la contraddizione. Pensiamo siano i tratti salienti per definire il percorso fin qui compiuto: da una parte, la “proceduralizzazione” dell’attività di governo, invece della tanto auspicata discontinuità sia da Mafia Capitale che dal commissariamento (e dalle politiche liberiste, aggiungiamo noi), e dall’altra, l’arroccamento nel Palazzo Senatorio invece della sua apertura e permeabilità alla cittadinanza.
Per quanto riguarda il primo punto – il divenire procedura dell’attività di governo – si è quasi tentati di pensare che la Sindaca sia rimasta intrappolata in una specie di incantesimo, sia caduta vittima di una sorta di legge del contrappasso. L’immagine della nuova Giunta si incrina proprio su quelle che volevano esserne le sue qualità più sbandierate, i valori fondativi di questo “nuovo che avanza”: l’onestà e la competenza del cittadino qualunque, estraneo a meccanismi di potere fin troppo noti e consolidati. Questo castello di retorica è crollato in pochi mesi, e a poco servono le rettifiche del regolamento interno promosso ad hoc da Beppe Grillo. Con l’arresto di Marra (benché riferito a un caso di corruzione precedente all’attuale consiliatura) si chiude idealmente la prima fase del Governo Raggi. Ma attenzione, altrettanto semplificatorio sarebbe assimilare il M5S agli “altri” in quanto ugualmente corrotto. Il problema è più profondo, e soprattutto è eminentemente politico, non giudiziario.
Come avevamo segnalato già tempo fa, nei mesi che hanno seguito l’elezione di Virginia Raggi, i 5 stelle hanno pensato che si potesse sostituire la politica con una sorta di tecnica dell’amministrazione, e quindi una visione alternativa e complessiva di città – necessariamente politica e di parte – con procedure formalizzate che sarebbe bastato applicare per risolvere i diversi e incancreniti problemi della città.
Per mettersi al riparo il più possibile dai rischi che comporta governare – sbagliare, perdere consenso, sporcarsi le mani – la giunta si è trincerata dietro principi astratti, e presuntamente neutri, come quello della legalità, appunto, e dei curriculum. Che la «tecnica» e i «tecnici» possano essere invocati come garanzia della correttezza delle procedure, e che la legalità, come valore trascendentale, possa risolvere lo squilibrio di potere che caratterizza chi vive una città complessa e stratificata come Roma non potevano che rivelarsi soluzioni illusorie e fallaci.
L’assunzione di tali procedure contraddice il senso stesso dell’agire politico: quello di operare delle scelte di campo, cosa ben diversa dall’eseguire un algoritmo che a un problema fa corrispondere una, e una sola, possibile soluzione, sollevando da ogni responsabilità e conseguenza chi la intraprende.
In realtà, se qualcosa dovrebbe insegnare il «caso Marra» è che quando si occultano dietro l’invocazione generica alla legalità interessi sociali contrapposti, quando si equipara il non rispetto delle regole per chi specula sul patrimonio immobiliare per fare i soldi con quello di chi occupa quel patrimonio perché in emergenza abitativa o perché privato di servizi fondamentali, non si commette solo un errore di valutazione: si finisce per fare attivamente gli interessi di chi dispone di più potere. Si fa vincere il più forte.
Pensare che ciò di cui manca Roma sia un governo neutrale e rispettoso delle procedure, vuol dire non comprendere che dentro quelle stesse procedure vi è già l’anima e la sostanza di quel progetto neoliberale che sta distruggendo ed impoverendo la città. Vuol dire non vedere, o non voler vedere, che tra legalità e giustizia c’è sempre meno coincidenza.
La totale assenza di una visione politica della città, tuttavia, è solo una parte del problema. E qui veniamo al secondo punto: l’arroccamento della giunta. La crisi attuale, infatti, ha le sue radici nella scelta operata dalla Sindaca di rinchiudere dentro un non meglio specificato «cerchio» di funzionari, consiglieri, esperti e tecnici, la definizione delle politiche di una città contesa e divisa come Roma. Non possiamo non notare come tanto più andavano assumendo peso alcuni personaggi oscuri e si approfondivano gli scontri tra le varie componenti della Giunta, tanto più il governo della città diventava impermeabile alle istanze sociali agite dal basso. Ci sembra qualcosa di più di un semplice caso, il fatto che quando lo scorso 4 ottobre la sala della Protomoteca fu chiusa in faccia a comitati, cittadini, movimenti, l’ordine era firmato da Raffaele Marra. Ci sembra emblematico lo sviluppo della vertenza dei canili comunali parallelamente a quello della parabola dell’ex assessore all’ambiente Muraro. Vertenza che al momento si è conclusa senza che l’amministrazione abbia garantito un futuro lavorativo per i 93 ex dipendenti, da mesi impegnati a mandare avanti un servizio pubblico senza stipendio né contratto.
L’assenza di interlocuzione con le componenti sociali, con le vertenze e i conflitti che animano il tessuto metropolitano, rende di fatto impossibile che il nuovo governo possa resistere alla cannibalizzazione della politica cittadina da parte delle cordate che, da sempre, muovono i fili delle scelte che contano e alimentano gli interessi di alcuni contro i diritti di tutti. Se si volesse dire con una battuta: corruzione e malgoverno non derivano da una mancanza di legalità, quella ne è semmai la conseguenza, ma da un eccesso di potere. La corruzione è un effetto della chiusura dello spazio democratico di partecipazione e decisione. L’unica soluzione allora è proprio l’apertura ai conflitti e alla partecipazione democratica dei cittadini, tanto evocata eppure così poco praticata dal Governo a Cinque stelle.
La straordinaria affermazione del Movimento 5 stelle alle ultime elezioni comunali a Roma ha rappresentato il rifiuto, largamente maggioritario quanto trasversale, di un sistema di potere, animato da centrodestra e centrosinistra; così come ha segnato il rifiuto del commissariamento, del tramutarsi del governo in amministrazione cieca e muta che taglia fuori ogni logica di inclusione e partecipazione democratica. Il disgusto per una logica che componeva interessi privati attraverso il pubblico, che faceva della politica uno strumento per imprese colluse e interessi criminali si fa esigenza di nuovo protagonismo sociale. Un sentimento, quello espresso nelle urne, complesso: in quel voto clamoroso si è espressa vendetta, rabbia, disincanto ma anche un’inequivocabile spinta alla discontinuità rispetto al passato.
A seguito della grande manifestazione dello scorso 19 marzo, convocata con la parola d’ordine “Roma non si vende”, diverse sono state le occasioni di confronto pubblico tra la città solidale e i candidati al Campidoglio, prima, e con la nuova giunta, poi, in affollate assemblee di autogoverno che hanno posto la sfida di una concreta sperimentazione democratica e partecipativa. E il vero problema allora è proprio l’assenza di una discontinuità reale su tante e troppe questioni-chiave che riguardano la città. Terreni su cui misurare l’effettiva consistenza di uno spartiacque tra un “prima” e un “dopo” a partire dalle questioni-chiave che riguardano la città:
– una nuova politica per l’uso del patrimonio pubblico, che sostituisca ai criteri di valorizzazione economica quelli della valorizzazione culturale e sociale del tessuto solidale della città, dal centro alle periferie, attraverso il riconoscimento dei beni comuni urbani come istituzioni dell’autogoverno e della partecipazione democratica dei cittadini. L’abrogazione della delibera 140, che rischia di cancellare centinaia di esperienze sociali e associative nella città, e la costruzione di un laboratorio sui beni comuni urbani sono ancora lontani dal realizzarsi. Un terreno su cui l’amministrazione finora ha proceduto in autonomia, senza nessun vero confronto con la città, arrivando a inserire nel bilancio previsionale del 2017 i debiti contestati a spazi sociali e associativi;
– è necessaria e urgente una nuova politica della casa, che inizi con lo stop agli sfratti per morosità, e provi – anche attraverso la requisizione delle case sfitte – a intervenire su un mercato degli affitti insostenibile per centinaia di migliaia di cittadini;
– un audit pubblico del debito di Roma in base al quale definirne la ristrutturazione e il rigetto del piano di rientro attuale, che sta strangolando la città e chi la vive. Il bilancio previsionale presentato dalla giunta e bocca in questo senso, esprime la completa continuità con le politiche del rigore che scaricano sui cittadini i costi del malgoverno e della crisi;
– i servizi pubblici non sono un tema meramente economico né di profitto ma di garanzia sociale sia per gli utenti che per i lavoratori. Serve quindi non solo trasparenza ma coinvolgimento di cittadini e lavoratori sul futuro delle aziende municipalizzatee dei servizi pubblici (tutto il contrario di quanto avvenuto per i canili comunali): va garantita la ripubblicizzazione dell’acqua e dell’Acea come sancito dal referendum del 2011, invertendo nettamente la rotta rispetto alla nomina e alle dichiarazioni dell’assessore Colomban;
– la ridefinizione delle politiche sociali e d’accoglienza, semplicemente azzerate dopo Mafia Capitale, che garantisca la dignità per i transitanti e i migranti, la solidarietà e l’inclusione, la qualità dei servizi così come i diritti dei lavoratori. Perché senza un’accoglienza e una vita dignitosa per i migranti ci sarà solo guerra tra poveri e concorrenza al ribasso sulle condizioni di vita e di lavoro di tutti e tutte.
Virginia Raggi, nella conferenza stampa seguita all’arresto di Raffaele Marra, nel tentativo di prenderne le distanze, ha detto: “Il mio braccio destro sono i cittadini romani”. Il problema è proprio rovesciare questa prospettiva: la pretesa del Movimento 5 stelle di rappresentare e riassorbire al proprio interno ogni istanza di cambiamento ne ha prodotto il ripiegamento, chiudendo fino ad ora ad un’autentica alleanza con la città fatta di interlocuzione aperta, di soluzioni e pratiche condivise, di reale diffusione di potere. Se la Giunta Raggi vuole cambiare passo, e non semplicemente provare sopravvivere alla sua stessa crisi, non può eludere tali istanze e domande di partecipazione facendo finta di non sentire. Al di là di un tweet di circostanza, il Governo della città è rimasto immobile anche di fronte al licenziamento di 1666 lavoratori di Almaviva, una crisi occupazionale che colpisce una città già in crisi occupazionale.
Per quanto ci riguarda, continueremo a occupare le piazze e i luoghi abbandonati, a costruire mutualismo e solidarietà, cultura e socialità, ad opporci alle privatizzazioni, al razzismo e all’impoverimento, a resistere agli sfratti e agli sgomberi, a fare della democrazia una pratica diffusa e concreta e non una parola vuota e virtuale.