Qui non si abita in infradito

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La città turistica e i filtri di classe all’urbano, il caso Venezia.

di Giancarlo Ghigi (Venezia in rete)

Una premessa, divinando su google

“Se Venezia muore”, “Massentourismus in Venedig”, “Veniceland”. Da molti anni si moltiplicano saggi, documentari e opere d’arte che raccontano la storia d’una Venezia turisticizzata, che impagliandosi in museo della sua propria rappresentazione, perde goccia a goccia quell’originale fascino millenario. Da dove partire per raccontare il caratteristico rapporto conflittuale che si dà in questa città, tra la mummificazione museale del tessuto urbano e ciò che resta dell’abitare, dei suoi residenti, ancor oggi inspiegabilmente così vitali nello spirito civico? Partiamo dalla turisticizzazione del territorio, con qualche flash, affidandoci per una volta alla scatomanzia di google trend(1),  provando cioè a vedere quali siano state negli ultimi 15 anni le variazioni tendenziali di alcune parole chiave digitate su google da un turista che cerchi qualcosa su Venezia per la prossima gita.

Immaginiamo un signore inglese, Jack, che fuma beato la sua pipa in salotto ed è interessato a fissare le tappe del prossimo “petit tour” pensionistico. Ryanair gli offre uno stimolante Londra-Venezia a 21 euro e novantanove per domenica 29 settembre 2019. La chiave di ricerca del nostro idealtipo di pensionato inglese, ovvero il doppio lemma “venice attractions” mostra negli anni un andamento decisamente negativo, oggi infatti questa chiave di ricerca gode di una fortuna dimezzata rispetto a quella che aveva nel 2004.

Ora invece immaginiamo un ragazzotto californiano, in calzoni corti, Matthew, fresco di diciottesimo, che digiti rapido con un pollice sullo smartphone sorseggiando Fanta. I lemmi della sua ricerca su google, ovvero “venice best things” hanno un trend decisamente più entusiasmante, questa chiave di ricerca ha infatti oggi una rilevanza tripla rispetto a quella che aveva quindici anni fa. Insomma eccoci nuovi consumatori di viaggi in pillole, eccoci interrogare il motore di ricerca per conoscere nuovi shottini di cose da vedere, piccole cose da fare, airbnb experiences, in velocità. I nostri tempi di permanenza media nelle strutture ricettive di Venezia assecondano questa banale semantica, assestandosi a 2,49 giorni, ovvero 59 ore, che si riducono a 1,68 giorni, ovvero 40 ore nel caso dei turisti asiatici(2). Capiamoci, in sole cinquantanove ore comprensive di sonni, svaghi, pasti e code ai vaporetti, ad un occidentale medio dotato di almeno otto megapixel, non resta in ogni caso che affidarsi alle “best things”, alle listine già pronte che ogni città turisticizzata offre per ottimizzare i nostri tempi macchina. E il vecchio Jack nel suo salottino intanto che fa? Ha visto “Veniceland” nel portale della BBC e affina quindi la sua ricerca con delle keyword che ogni presidente d’Apt teme come la peste, ecco infatti avanzare un nuovo spettro semantico, la doppietta “venice overtourism”, che produce ormai 39.200 risultati su google, con un trend decisamente iperbolico dato che il neologismo si afferma solo dal 2015. Ma lasciamo da parte la cledonomanzia o arte divinatoria basata sulla voce di popolo, e torniamo a cose più serie.

Venezia è una città iperturistica

E’ oggettivo. Simili accidenti del destino paiono prodursi come derivato implicito della propria “bellezza”. Se sei così bella, i turisti si voltano a guardarti. E ovunque vi sia tale “bellezza” e a pochi chilometri da essa sorga un aeroporto, oppure un attracco per grandi navi, oppure un treno ad alta velocità, ecco sopraggiungere l’inesorabile onda del consumo turistico, sia esso compulsivo o meno, si credano tutti viaggiatori o meno. E Venezia gode di tutte e tre queste calamità innaturali. Essa è pertanto divenuta prodotto, e come prodotto viene comodamente messa a scaffale da Ferrovie dello Stato a 9 euro e 90, da Trivago a 75 euro, o sul portale di Costa Crociere a 100 euro/die quasi tutto compreso. Una meta low cost. Ma il concetto di “bellezza” non può esimerci dall’affrontare quello più interrogante di “desiderabilità”, e sappiamo come il desiderabile sia senza dubbio il prodotto d’un tempo e d’un gusto. Henry Lefevbre, che ci guiderà più volte in questo piccolo excursus, nel suo imperdibile “Diritto alla Città” del 1967 ebbe a scrivere: “La città non è un luogo passivo di produzione o concentrazione di capitali ma anche l’urbano interviene come tale nella produzione, è mezzo di produzione. [nel consumo contemporaneo] il consumo di segni è chiamato a svolgere una funzione sempre più importante […] esso non sopprime il consumo di puri spettacoli ma vi si aggiunge, sovrappone, ogni bene così si sdoppia in una realtà ed in un immagine che è parte essenziale del consumo (eterotopia) […] Si consumano segni quanto oggetti”.

Il concetto stesso di “desiderabilità” sedimenta cioè in segni, stilemi evocativi, e il consumo turistico cerca tali segni come in una sorta di caccia al tesoro, per poi accumularli come un tempo i bollini dei rifugi montani nei cappelli di certi vecchi alpini. Continua Lefevbre:“la cultura stessa diventa oggetto di consumo, produzione per il mercato […] La città storica assume l’aspetto di un documento, di una mostra, di un museo. La città storicamente formata non è più vissuta, non la si coglie più praticamente. E’ solo un oggetto di consumo culturale improntato all’estetismo, rivolto a turisti avidi di spettacoli e di pittoresco […] Davanti ai nostri occhi abbiamo lo “spettro” della città, della società urbana e, forse, della società “tout court” […] L’immagine dell’inferno urbano che si prepara […] gente che corre a vedere le rovine delle antiche città per consumarle turisticamente, cercando in tal modo un antidoto alla nostalgia”.

Con incredibile lucidità questo testo, che risale alla fine degli anni sessanta, descrive quella che allora poteva solo essere una marginale ma senz’altro emergente nuova categoria di consumi compulsivi. Lefevbre descrive questa crescente richiesta turistica di città storiche come una risposta alienata ad una più generale rimozione dell’urbanità ad opera di meccanismi segreganti e ad una sua successiva desublimazione nel consumo, come sedativo alla nostalgia per un rapporto sociale che le città storiche un tempo incorporavano e di cui si conserva memoria nell’inconscio collettivo. Marcuse ebbe a descrivere negli stessi anni e in modo del tutto analogo l’eterodirezione dell’appagamento che avviene attraverso il meccanismo da lui descritto della “desublimazione repressiva”, ovvero attraverso una sorta di dedizione passivizzante a “oggetti del desiderio” sostitutivi del reale, un meccanismo di massificazione e desoggettivizzazione del gusto, inappagante per definizione ma ciononostante introiettato, presupponendo l’assenza di alternative.

Le città turisticizzate, gentrificate, omologate, circondate da periferici anelli residenziali intrinsecamente segreganti, quanto pure le campagne che perdono una loro centralità funzionale divenendo periferie meccanizzate delle metropoli, tutti i luoghi della modernità abitativa insomma, generano secondo Lefevbre un bisogno di consumo che trova anche nei segni delle città storiche una propria risposta simbolica, un appagamento alienato dispensato in forma di rappresentazione dell’autentico. L’autentico nella città storiche diviene il segno d’un aver detenuto nel passato una funzione ormai divenuta estranea e pertanto negata, ma ciononostante ancora consumabile in forma nostalgica, come una vecchia foto da comodino. Accanto a questo turismo che cerca segni d’autentico ne emerge anche uno nuovo, alla Matthew, molto più semplice nei gusti, che cerca la simulazione per la simulazione. Un nuovo consumo che introiettando l’illusorietà perenne, da videogame, del segno, ne accetta la sostituzione integrale; l’oggetto del desiderio scompare nel simulacro, la città dalle sembianze di giostra vale tanto quanto la giostra dalle sembianze di città. Per questa nuova tipologia di consumatori la fruizione del parco tematico della città è appagante quanto la città stessa. Lefevbre descriveva in questo modo i consumatori di “Parigi 2”, e lo stesso potremmo dire oggi per i consumatori delle molte simulazioni di Venezia nel mondo, luoghi che presto o tardi sostituiranno interamente il “consumo” dell’originale, sia in quanto questi succedanei appaiono oggettivamente più giocosi e ripuliti, sia anche perché la città tende da molti lustri ad omologarsi alle sue imitazioni.

Il mercato turistico crea un suo modo di produzione

Ma il turismo è un’industria pesante. E questa industria determina una sua forma-città, così come un tempo la “città industriale” creò una sua propria forma-città. Lefevbre negli anni sessanta descriveva l’ascesa della “città direzionale” che allora sorgeva sulle ceneri della vecchia “città industriale” e si imponeva al tessuto urbano occupandone fisicamente gli spazi. Le officine abbandonate venivano rapidamente convertite in uffici direzionali. In precedenza la “città industriale” si era pure affermata sulle rovine della preesistente “città commerciale”, e lo aveva fatto in modo del tutto simile, lungo linee di sviluppo che vedono ogni volta l’urbano allinearsi alle ottimizzazioni richieste dal modo di produzione dominante. Si tratta senz’altro di una visione filosofica che risente della temperie “strutturalista” degli anni sessanta e di chiara ispirazione marxista. L’allinearsi della forma urbana al modo di produzione dominante, la nascita di ideologie funzionali a questa tessitura, ci pone oggi una domanda che merita approfondimento. E’ forse nata la “città turistica”? Impone la sua fede ai consumatori? Esiste uno specifico modo di produzione, ovvero di estrazione di valore, che possiamo inquadrare nella funzionalizzazione turistica dei centri storici, nella loro trasformazione in parchi tematici organici alla vendita (classificabile come export) di segni? La città turistica, al pari della città direzionale, pare avere la forza di essere generatrice di immaginari, con propri desiderata di supporto. Se analizziamo il caso veneziano alla luce di questa chiave interpretativa esso ci appare indubbiamente molto più chiaro.

Venezia, l’industria turistica e la segregazione proletaria

Scrive Lefevbre nel 1967 a proposito di Venezia: “Il processo si presenta conflittuale […] a Venezia la popolazione attiva lascia la città per l’agglomerato industriale di Mestre, che si estende sulla terraferma della città lagunare. Questa città tra le città, una delle più belle lasciateci in eredità dalle epoche preindustriali è minacciata non tanto dal deterioramento materiale […] quanto dall’esodo dei suoi abitanti”. Un processo di segregazione o autosegregazione consensuale (ovvero suggerita da ideologie dominanti e funzionali), porta in soli cinquant’anni due terzi dei residenti della città storica a spostarsi verso Mestre e Marghera. La loro emigrazione è principalmente motivata dal costo dei fitti, almeno riferendosi all’ultimo studio del Coses del 2009, che dimostra come il 60% degli esodati non si sarebbe spostato dalla città storica se vi avesse trovato alloggi a prezzi compatibili col proprio livello di reddito(3). Negli anni sessanta il centro storico della Venezia insulare assume parzialmente una funzione direzionale, ma già negli anni ottanta inizia una lenta migrazione anche delle funzioni direzionali verso la cinta urbana. Rimossa la funzione industriale dalla città, figlia del ciclo economico ottocentesco e del primo novecento, per opera delle forze vive che ne decretarono piuttosto una funzione museale e direzionale, annichilita poi negli anni ottanta la stessa funzione direzionale, per l’affermarsi d’una più performante economia turistica, oggi la città storica è definibile a pieno titolo “città turistica” ovvero dedita al modo di produzione turistico. Attualmente infatti il 75% delle transazioni di immobili residenziali nel centro storico sono dirette al mercato turistico(4) e delle 36.000 abitazioni complessive ben 6.000 sono dedite alla locazione turistica, annichilendo completamente ogni fetta di mercato residenziale anche per le classi medie(5). Una riorganizzazione che Lefevbre aveva già descritto negli anni sessanta a seguito dell’ascesa della “città direzionale”. Nella ristrutturazione urbana che ne consegue “la classe operaia [finisce] vittima della segregazione, [viene] espulsa dalla città tradizionale, [viene] privata della vita urbana attuale o possibile” e questo chiaramente poneva, già allora, un serio problema politico. Un simile esodo, principalmente di classe, ha bisogno per il filosofo francese di un ceto di servizio per compiersi, e questa classe di servizio è messa a disposizione dalla burocrazia urbanistica progressista della città, che con lo scopo di isolarne e ottimizzarne le funzioni, di semplificare i processi, finisce per assecondare involontariamente la rendita, sposta la fruizione del suolo e delle stesse proprietà pubbliche dal valore d’uso verso il valore di scambio. Non si tratta necessariamente di notabili in cattiva fede quanto più spesso di burocrati che “riescono a comprendere solo ciò che riescono a disegnare” e, sia detto per le cronache, hanno una pessima mano artistica. A Venezia la conseguenza catastrofica di questa gestione burocratica comporta la nascita pianificata della “città turistica”, mono-funzionale, mono-economica, via via più simile alle proprie imitazioni, decretando l’inizio stesso della futura fine della sua desiderabilità. Sappiamo che un modo di produzione genera inevitabilmente i prodromi del suo stesso superamento.

La disintermediazione degli immobiliaristi

Nell’ottica marxista di Lefevbre, e nelle cronache della nostra città, che ne confermano la prospettiva, vi è un tempo per la classe di servizio ed un tempo per l’oligarchia. La classe di servizio è utile appunto finché non appiana le contraddizioni tra un modo di produzione che si afferma ed  il modo di produzione preesistente, ma presto questa sua funzione viene scalzata da quella che Lefevbre chiama “l’urbanistica degli immobiliaristi” ed oggi potremmo chiamare l’urbanistica disintermediata. L’immobiliarista, l’oligarca, si impone “manu finanziaria” direttamente come urbanista, ambisce ad un ruolo politico, ridisegna il territorio in modo rigidamente funzionale, senza le distorsioni che derivavano dal peso del consenso e della ricerca di mediazione. Il nuovo immobiliarista non vende più solo immobili, preferisce vendere direttamente urbanistica, visioni di città, così egli immagina, attua e infine gode delle strategie che pianifica. E così oggi, sull’onda della disintermediazione politica, figlia dell’attuale crisi di sistema, si afferma a Venezia un nuovo dirigismo paternal-populistico-padronale il cui messaggio è cristallino: “conta solo chi intraprende, chi ha capitali da investire”. Il pensiero unico neoliberale una volta guadagnato il largo, si può ora permettere il lusso di gettare a mare la vecchia ciurma d’una classe di servizio che ne ha consentito i primi vagiti, e l’oligarca può finalmente assumere in modo diretto le redini della città. Trump, Berlusconi, o in questa nostra piccola città lagunare il titolare di Umana Holding Luigi Brugnaro, si ergono a nuovi interpreti puri, capitani d’azienda, città o Stato. Luigi Brugnaro, oligarca forte d’un azienda da 486 milioni di fatturato, con interessi che spaziano dall’immobiliare alla produzione vetraia, dall’intermediazione di manodopera agli aeroporti, diviene imprenditore-sindaco. E’ questo imprenditore prestato alla politica che fin dall’elezione chiarisce il fine ultimo del suo mandato e le funzioni precipue che ritiene di dover assegnare al centro storico. Esorta a non circolare nelle zone centrali spettinati né indossare le infradito, esorta i residenti a evitare di accanirsi a risiedere nella città storica se non tollerano più il peso della sua mono-economia. Ribadisce il sindaco: «Il futuro del Comune non è Venezia, è Mestre dove c’è la gente che vive» (6), la città storica appare dunque in quest’ottica una riserva di morituri in attesa che la nuda proprietà dei suoli torni alla sua brechtianamente “irresistibile” funzione vocazionale. Un diktat chiaro e funzionale alla vigente tirannide mono-economica «Il problema di Venezia non sono gli alberghi. Il mondo è cambiato, dobbiamo accogliere i turisti. Gli alberghi rappresentano rigenerazione urbana, e portano lavoro. Lavoro e legalità sono le mie parole d’ordine» (7). Rigenerazione urbana che qui può essere letta solo nella direzione lefebvriana, ovvero di allineamento della città al dominio, alla funzione. Chiaramente non mancano, anche se sarebbe troppo lungo elencarli qui, i conflitti di interesse del sindaco oligarca, ma per approfondimenti su questo tema rimandiamo alla ricerche del gruppo 25 Aprile(8).

Una prospettiva

Venezia è paradigmatica. E’ forse una delle prime “città turistiche” della storia, e sicuramente rappresenta un esempio emblematico d’un modo di estrazione di valore dall’urbano. Venezia è un luogo in cui “l’urbano interviene come tale nella produzione, è mezzo di produzione”, e rappresenta sicuramente uno tra i casi più noti di overtourism nel mondo. Eppure questa città, nei secoli, ha già -e più volte- fatto vetrina di sé, in epoca pre-capitalistica certo, con minori livelli di ottimizzazione e appiattimento omologante, ma comunque con dei fuoriscala data la modestissima dimensione del suo centro storico. Fu il centro industriale e commerciale d’un immenso impero marittimo che regnava incontrastato nell’Adriatico e nel Mediterraneo orientale, poi nel sedicesimo secolo si specializzò nel turismo reliquiario che dette lustri anche ad una vera e propria corporazione di guide turistiche, i Tolomazi, e successivamente nel pieno della sua decadenza marittima annichilì in bordello d’Europa, per riscoprirsi infine città industriale nell’ottocento. Per Lefevbre, e ci sentiamo di associarci a questa sua lettura, il conflitto urbano si dà sempre tra un ordine prossimo, che vive nelle crepe della città, e un ordine remoto, che la sovradetermina ideologicamente ed economicamente,  potendo arrivare al punto di annichilirne le istituzioni municipali fino a trasformarle in suoi meri apparati esecutivi. Ma questo conflitto appunto, non si risolve con una banale vittoria della polarità sovradeterminante. Incredibilmente infatti, e pur su “fondamenta deboli”, la società urbana sopravvive tra le crepe, come sopravvive inspiegabilmente un dialetto all’omologazione linguistica imposta da una lingua nazionale, così come sopravvivono taluni insegnamenti di derivazione matrilineare e diventano anzi mattoni fondanti l’identità, pur in un contesto di imperante dominio patriarcale. Insomma l’urbano si rigenera continuamente sotto le sue stesse ceneri, dentro e contro la struttura, su fondamenta deboli che ne sono in qualche modo anche la risorsa ultima. Questo che oggi sembra solo un auspicio ed una prospettiva ottimistica, o peggio adattiva, resiliente, appare invece una risorsa da riscoprire a fronte di un annichilente senso di ineluttabilità apocalittica puramente funzionale al dominio. Ecco, questa resistenza di profondità dell’urbano, dell’ordine prossimo, oltre a far comprendere l’altrimenti inspiegabile attivismo civico degli ultimi residenti a Venezia, appare forse più credibile proprio in questa città, vittima perennemente viva della sua decadenza, vittima di stravolgimenti e incredibili discontinuità dell’urbano, città che non solo metaforicamente oscilla ma persiste da un millennio sull’instabile fango d’una palude. Le condizioni d’un cambio nei rapporti di forza sono da sempre, e necessariamente, originariamente liminali. Ed è lì che le nostre resistenze vanno riscoperte e coltivate.

(1) https://trends.google.it/trends/explore?date=all&q=venice%20things

(2) https://www.comune.venezia.it/sites/comune.venezia.it/files/immagini/Turismo/ANNUARIO%202017%20Ver%202.8.1%20cover.pdf

(3) http://coses.comune.venezia.it/download/Doc1092.pdf

(4) https://issuu.com/martacogo3/docs/market_report_ve_2018_ita

(5) https://www.facebook.com/ocio.venezia/

(6) https://nuovavenezia.gelocal.it/venezia/cronaca/2016/05/31/news/il-futuro-e-a-mestre-brugnaro-tradisce-venezia-1.13574126

(7) https://nuovavenezia.gelocal.it/venezia/cronaca/2018/12/04/news/brugnaro-gli-alberghi-portano-lavoro-a-venezia-basta-lamentele-1.30005091

(8) https://gruppo25aprile.org/tag/luigi-brugnaro/

 

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 40 di Maggio – Giugno 2019. “Una città per tutti

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