Quel 25 aprile che verrà. La cura del vivente come nuova Resistenza

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di Antonio De Lellis, Attac Termoli 

Quale può essere il significato del 75° dalla Liberazione in un Mondo senza libertà e confinato che conta ancora molte vite spezzate dalla pandemia?

I tratti di quella “guerra civile” hanno pervaso a lungo la vita politica italiana fino a quando il liberismo, devastatore e predatorio, non è stato assunto da quella parte politica che a lungo lo aveva combattuto.

In realtà mai come nelle guerre civili le due parti sono irrimediabilmente diverse e divise. I fascisti, coerentemente con la loro storia, volevano un’Italia opposta a quella che volevano i resistenti. La posta in gioco era dunque il senso stesso dell’Italia e della sua identità nazionale; e la guerra di liberazione fu combattuta non solo contro il tedesco invasore, del resto consonante ideologicamente con il fascista, ma proprio per concorrere a liberare l’Italia dalla prospettiva di un perpetuarsi del regime fascista.

Dopo diversi passaggi e dominazioni finanziarie ci siamo resi conto che quelle due visioni del mondo sono state, per fortuna, diverse e differenti fino a quando il liberismo non è diventato realismo capitalista. E’ più facile parlare di fine del mondo che della fine del capitalismo scriveva  Mark Fischer.

Dopo 75 anni ci troviamo a lottare, a resistere contro un virus letale che non ha una ideologia, ma che è frutto di un sistema chiamato liberismo che ha sfruttato e depredato l’umanità e la terra e quindi i viventi, contribuendo a svuotare quei principi di libertà, cura, solidarietà, fraternità e sorellanza, attraverso il dominio del debito che ha determinato privatizzazioni di beni comuni e tagli che non riducevano spesa eccessiva, ma investimenti per la vita e il futuro.

Abbiamo imparato, durante il confinamento da pandemia, che senza la cura come bene comune e pubblico, non c’è sicurezza sanitaria e non c’è economia possibile.

La grande giostra liberista si è fermata e mostra le sue atroci ferite. Non tutti si muovevano, ma molti erano fermi e si sorreggevano per non perdere l’equilibrio, mentre molti altri invisibili facevano girare “la giostra” con la loro forza non solo fisica, come gli schiavi e i condannati, rematori delle galee romane.

Quell’anelito che oggi arriva dalla Resistenza non deve essere la malintesa libertà individualistica e narcisistica, ma quella forza collettiva che si tramuta in solidarietà per la cura del vivente.

Quel sistema di società libero e solidale, agognato, che ha dato la forza di combattere ai partigiani e ai civili resistenti,  oggi possiamo considerarlo come un orizzonte quanto mai attuale.

La libertà senza la solidarietà si è dimostrata alternativa e letale tanto da determinare non  un sistema monco, ma un sistema opposto.

Oggi a quale lotta assistiamo? Quali valori di libertà e solidarietà emergono dal confinamento obbligatorio?

Limitandoci solo agli aspetti sanitari, gli elementi di quella lotta sono rinvenibili nell’impegno  dei sanitari, che tra mille difficoltà, curano le patologie causate da covid-19, ma anche tra costoro vi sono molti che hanno preferito cure più attenuate per timore e per mancanza di preparazione. Vi sarà un lungo strascico di battaglie  legali e politiche che analizzeranno il perché di tanti morti tra il personale sanitario. Potevano essere evitate? Perché laddove le strutture sanitarie specialistiche si erano dotate di presidi sanitari e di metodologie adeguate, anche al sud, il bilancio è stato meno devastante o minimo? Quanto la scarsità di fondi e lo sbilanciamento verso il privato o peggio ancora la lottizzazione sanitaria ha influito?

Un secondo fronte di lotta civile è presente anche nella sfida lanciata dai parenti delle vittime nelle Rsa i quali vogliono capire perché hanno perso gli affetti così tragicamente e improvvisamente, recisi forse anche dal virus dell’avidità e dell’ignoranza oltre che da quello dell’incapacità, della scarsità o mancanza di cura e strategia adeguata.

La Lombardia, e non solo, è forse la terra in cui la sanità è più efficiente, in cui c’è maggior libertà di cura, la quale, però, da sola, è espressiva di un modello di società alternativo a quello della cura.

Forse la sanità privata, sempre più presente, non ha sempre nella sua mission e vision la solidarietà e in più è mancata quell’alleanza territoriale tra chi doveva restare a casa e chi doveva curare e far fronte ad una pandemia, ma senza focolai estesi.

Un’altra criticità che sta già emergendo è la paralisi dei centri di cura, ormai schiacciati sulla prevenzione da Covid 19, ma che al contempo registrano un brusco calo degli esami diagnostici. Si pensi che nei piccoli centri di cura una cifra non inferiore a 1000 esami diagnostici fondamentali come risonanze magnetiche, tac, raggi e altri sono stati rinviati. Se lo consideriamo come numero minimo di esami diagnostici non eseguiti a livello nazionale, con 1000 centri di cura circa a livello nazionale, potremmo arrivare a un milione di esami fondamentali non eseguiti.

Un milione di persone non hanno potuto fare prevenzione nei tempi giusti. Quanto inciderà questo nella prevenzione, ad esempio, dei tumori, che mietono ogni anno 180 mila persone su 647 mila morti complessivi (dati 2017)?

Come può incidere questo sul tasso di mortalità futuro?

Esiste anche un altro versante di lotta contro quei tagli agli investimenti sanitari che tutte le forze politiche al governo degli ultimi decenni hanno colpevolmente richiesto e attuato, portando ad una drastica riduzione dei centri di cura, che nel 2017 erano 1.000, di cui il 51,80% pubblici ed il rimanente 48,20% privati accreditati. Dieci anni prima, nel 2007,   1.197 istituti di cura, di cui il 55% pubblici ed il rimanente 45% privati accreditati. Dunque non solo in 10 anni il numero degli istituti di cura è diminuito di circa 200 unità, ma il trend di decrescita era già in corso nel 2007, prima della crisi economica e dell’austerity. E se guardiamo al rapporto relativo al 1998, quando l’assistenza ospedaliera si è avvalsa di 1.381 istituti di cura, di cui il 61,3% pubblici ed il rimanente 38,7% privati accreditati, ancora una volta risulta confermato il trend decrescente del numero degli istituti, già evidenziatosi negli anni precedenti, effetto della riconversione e dell’accorpamento di molte strutture, infatti la diminuzione ha riguardato il solo settore pubblico passando da 1.068 strutture del 1995 a 846 nel 1998 (-21%)». La riduzione del numero di ospedali dunque è un trend in atto da almeno 25 anni, da ben prima che scoppiasse la crisi economica nel 2008 e soprattutto non è coincisa temporalmente con una riduzione della spesa sanitaria in valore assoluto, anzi.

L’investimento dello Stato per la sanità è costantemente cresciuta, in valore assoluto, negli ultimi 20 anni. È però vero che negli ultimi dieci, in particolare, sia cresciuta meno di quanto non venisse promesso nelle varie leggi di Bilancio e soprattutto dal 2010 in poi abbia iniziato a calare come spesa in percentuale del Pil (dal 7 per cento al 6,6 per cento).

Ma tra il 1998 e il 2010, il numero di ospedali è stato costantemente ridotto, mentre la spesa pubblica per la sanità è sicuramente aumentata e parecchio: in valore assoluto, da meno di 60 miliardi di euro (a prezzi correnti) a più di 112 miliardi di euro, quasi il doppio; in percentuale del Pil dal 5,1 per cento al 7 per cento.

Il definanziamento al SSN è invece pari a 37 miliardi tra il 2010 e il 2019. Potrebbe sembrare in contrasto con l’aumento, in valore assoluto, dell’investimento sanitario, ma in realtà i due dati aggravano la situazione del Servizio.

Infatti, se il peso del privato accreditato è aumentato e se il numero degli ospedali pubblici è diminuito, allora quante risorse, nonostante il definanziamento sono state dirottate verso il privato?

Definanziamento e dirottamento hanno amplificato l’effetto e messo a dura prova il nostro SSN e quelli che oggi chiamiamo eroi altro non sono che le vittime dei tagli del sistema liberista.

Anche il numero dei posti letto, come il numero di ospedali, è crollato negli ultimi decenni. Nel 1998 erano circa 311 mila, nel 2007 –prima della crisi economica e dell’austerity, e dopo anni di costante aumento della spesa dello Stato per la sanità sia in valore assoluto sia in percentuale del Pil –erano calati di quasi 90 mila unità, arrivando a circa 225 mila e nel 2017, ultimo dato disponibile, erano circa 191 mila. In rapporto al numero di abitanti, siamo cioè passati da 5,8 posti letto ogni mille abitanti del 1998, a 4,3 nel 2007 e a 3,6 nel 2017. Anche in questo caso, del resto collegato a quello del numero di ospedali, la riduzione sembra insomma essere un fenomeno che ha oramai più di 25 anni e che non coincide con l’andamento (crescente, ma in valore assoluto) della spesa pubblica per la sanità.

Tutto quello che è stato detto per la sanità vale anche per altri settori pubblici che prima sono stati definanziati ed ora verranno dirottati e sempre più coinvolti nella prevenzione al Covid 19, ma senza strumenti, o scialuppe di salvataggio, e rischiando di sbilanciare la nave nel tentativo di accorrere tutti da una stessa parte, come presi dalla sindrome del Titanic.

Quel 25 aprile che verrà dovrà necessariamente avere quello stesso orizzonte della Resistenza con al centro la cura del vivente, persone, terra, beni comuni, enti locali, senza i quali nessuna economia solidale e società può esistere.

 

 

 

 

 

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