Quanto può valere un semplice “NO”

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di Marco Schiaffino

La vittoria del NO al referendum costituzionale porta tante buone notizie per il nostro paese.

La prima è che gli italiani sanno ancora distinguere tra la realtà che vivono ogni giorno e i servizi dei telegiornali. La campagna mediatica messa in piedi dal governo Renzi (grazie allo stratega Jim Messina) aveva infatti disseminato una serie di trappole sul percorso del referendum che non era agilissimo disinnescare. Prima tra tutti quella perversa logica bipolare (se voto NO sto favorendo Berlusconi e Salvini) che un bel pezzo del paese ha ormai interiorizzato. Il giochetto, per fortuna, ha funzionato solo in parte. Al netto degli intossicati da talk show, gli italiani hanno avuto la maturità di giudicare la riforma nel merito, schivando il tranello con una certa disinvoltura.

Altrettanto inefficace si è dimostrato il patetico tentativo di cavalcare l’appeal di un generico “cambiamento”, condito dal corollario di parole d’ordine degne della pubblicità di un detersivo. Il mantra “semplificazione, riduzione dei costi della politica, efficienza ed efficientismo”, anche se ripetuto fino alla nausea, non ha sfondato più di tanto tra gli elettori.

La seconda buona notizia è che i cittadini italiani non si sono rassegnati a pensare che il loro destino sia nelle mani degli indici borsistici, dei fondi d’investimento e delle banche d’affari. La campagna di terrorismo mediatico a firma Goldman Sachs, JP Morgan e soci ha avuto impatto zero, anche nella sua ultima declinazione che ha provato a mettere sul piatto della bilancia il rischio di mettere a repentaglio il “salvataggio” delle banche italiane.

La riforma Renzi-Boschi puntava a trasformare un intero paese in qualcosa di molto simile a un’azienda, con un governo “decidente” e un parlamento ridotto a un’assemblea degli azionisti che dà approvazione formale alle sue decisioni. Un progetto gradito (e sponsorizzato) dai mercati e dai soliti “partner europei”, che avrebbero potuto contare su un governo inamovibile e spazi di democrazia ridotti al lumicino per far passare le loro “riforme”. Oggi possiamo dire che la riduzione di democrazia, tanto auspicata dai mercati nel nome della stabilità, è stata scongiurata.

A quanto pare, infatti, i cittadini italiani sanno ancora riconoscere una fregatura quando se la trovano davanti. E non potrebbe essere diversamente, visto che di fregature negli ultimi anni se ne sono viste rifilare già parecchie. Dentro quel NO hanno trovato posto la reazione allo smantellamento dei diritti dei lavoratori consumato con il Jobs Act; al tentativo di ribaltare il risultato del referendum sull’acqua pubblica del 2011 con il decreto Madia; alla devastazione del sistema scolastico a opera della “Buona Scuola”; alla sponsorizzazione degli accordi internazionali di libero scambio (TTIP e CETA); all’assurdo tentativo di obbligare i lavoratori a chiedere prestiti alle banche per andare in pensione prima degli 85 anni e chi più ne ha, più ne metta.

In sintesi, il NO al referendum è la naturale reazione agli ultimi 30 anni di politiche neoliberiste che, nei quasi 3 anni di regno renziano, hanno raggiunto il loro apice. Con quale livello di consapevolezza? Difficile dirlo. Anche nella peggiore delle ipotesi, però, si può parlare per lo meno di uno spiccato istinto di autoconservazione. Il fatto che l’aspirante amministratore delegato di Italia S.p.A. abbia dovuto portare i libri in tribunale (rassegnando le dimissioni nelle mani del Presidente della Repubblica) infine, è la logica conseguenza di una sfiducia che ha pochi precedenti in termini numerici.

La notizia migliore, però, è che a disinnescare tutte le trappole di Renzi e Messina non ci hanno pensato leader politici e commentatori vari, ma i singoli cittadini. Se i politici si sono immediatamente allineati allo stesso livello di semplificazione renziano dettato dai format mediatici, ad affrontare la complessità di una scelta politica ci hanno pensato le migliaia di persone che hanno riempito le strade e le piazze, hanno organizzato centinaia di incontri e dibattiti, si sono sobbarcati l’onere di partecipare in prima persona a una lunghissima ed estenuante campagna elettorale, senza preoccuparsi più di tanto della sproporzione di mezzi tra le forze in campo. E hanno vinto.

Ora quella che si apre è una fase in cui c’è (per lo meno) una possibilità di aprire uno spazio di riflessione collettiva che abbia come oggetto il rapporto tra democrazia, partecipazione e forme di rappresentanza. Ovviamente non sarà tra le priorità dei soliti noti e difficilmente troverà asilo nell’agorà mediatica. Ma potrebbe (e dovrebbe) mantenere la sua spinta tra i tanti che hanno deciso di spendersi per scongiurare la sciagurata riforma costituzionale di Matteo Renzi. Dal basso, come sempre.

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