Zeugma – Il ratto di Europa
da Gaziantep (Kurdistan turco) Roberto Guaglianone
Gaziantep, la città più filogovernativa del Sud-est della Turchia, come viene chiamata la regione kurda, una metropoli di 2 milioni di abitanti, già distretto tessile e quinta economia urbana del Paese. Dal 2011-2012 è passata da 2 a 2,5 milioni di abitanti. Il mezzo milione di persone che la sovrappopolano arriva dalla Siria. La frontiera è a qualche decina di kilometri da qui. La presenza militare è piuttosto importante. Dopo la “strage del matrimonio” – 54 morti lo scorso agosto ad una festa di nozze funestata dai terroristi – e un tentativo sventato a gennaio, quando un candidato kamikaze entrò in caserma armato fino a denti ma venne immobilizzato prima di colpire, la situazione è apparentemente più tranquilla. Niente più sfilate di bandiere nere per le vie della città, ora siamo ai tempi dell’accordo con la Russia di Putin in funzione anti-Isis.
Quello che colpisce, di questa città, è che i siriani li vedi in giro praticamente ovunque. E non è soltanto una questione di numeri. La spiegazione è semplice: il sistema di asilo turco gestito dallo Stato non arriva a 300mila posti di accoglienza, suddivisi in 26 campi profughi (mediamente capienti 10mila persone ciascuno) disseminati in parte delle 81 province del Paese. Cinque di questi campi, gestiti da AFAD, la locale Protezione Civile (che si occupa anche di antiterrorismo) sono nella regione di Gaziantep e arrivano ad ospitare meno di 40mila persone: il 7% di quanti hanno trovato rifugio “temporaneo”, come recita lo status di protezione concordato ai siriani dal governo turco. Una temporaneità che per molti dura ormai da cinque-sei anni. Tutti gli altri cittadini siriani, in gran parte nuclei familiari anche molto numerosi, hanno affittato appartamenti, garage, cantine, dove si sono arrangiati come potevano: ed ecco triplicati i prezzi per gli affitti, e con essi le prime tensioni con gli autoctoni, pur in un clima complessivamente sereno, ancorché guardingo.
La città metropolitana di Gaziantep provvederà prossimamente all’edificazione di 50mila alloggi, che dovrebbero calmierare il mercato degli affitti, arrivato a livelli di bolla speculativa insostenibili sia per gli autoctoni, che – ovviamente – per i rifugiati, che hanno spesso dilapidato i loro averi per pagarsi un alloggio. Per non parlare delle altre piaghe, collegate alla necessità di procurarsi un reddito, degli “ospiti” siriani della Turchia (3,3 milioni in tutto, il che fa della Turchia il primo paese al mondo per presenza di rifugiati, dato UNHCR): il lavoro nero soprattutto minorile è in testa alle priorità di intervento delle numerose Ong locali ed internazionali che – sfidando le regole sempre più restrittive imposte al loro funzionamento dal governo dopo il tentato golpe di agosto 2016 – si prodigano spesso con ammirevole professionalità per affermare i diritti all’accoglienza dignitosa, alla salute, alla vita famigliare, all’istruzione e ovviamente al lavoro della popolazione siriana così largamente presente qui.
La situazione ha del paradossale: nonostante il contestatissimo accordo con l’Unione Europea – brandito ancora ultimamente ad arma di ricatto dal gendarme di turno – l’intervento dello Stato a favore dei rifugiati è minimale. Ma anche le Ong, che pure ne sostituiscono gran parte delle funzioni, non sono messe nelle migliori condizioni di lavoro possibili. Anzi: mentre siamo ancora in città, riceviamo notizia del rimpatrio di un cooperante da tempo presente con un’organizzazione italiana: non gli è stato rinnovato il permesso di soggiorno per proseguire le attività progettuali che lo vedono coinvolto, dovrà tornare in Italia e sperare di avere in tempi non biblici il nuovo permesso. Gli stessi operatori locali sono sempre “sul filo”: diverse centinaia di Ong sono state fatte chiudere dal governo negli ultimi sei mesi. Solo chi è sostenuto nella sua attività da sponsor importanti, come l’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati, riesce a resistere senza dover gestire la propria quotidianità in un clima di precariato persistente.
Gaziantep, fino a ieri considerata la “retrovia dello Stato Islamico” in Turchia, oggi è la “retrovia dell’accordo UE-Turchia sui rifugiati”, cioè quelli che dovrebbero restare lì, ma poco si fa per trattenerli, in condizioni di vita non semplici, in assenza di servizi e diritti. Per loro sono “prove tecniche di Europa”.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 28 di Marzo-Aprile 2017: “Dov’è finita la democrazia?”