1. Prof. Azzariti, la riforma costituzionale su cui si andrà a votare il 4 dicembre, cosa comporterà in termini di cambiamenti istituzionali nel nostro Paese?
Secondo i fautori della riforma ci si limiterebbe a intervenire su due specifici temi: da un lato “semplificando” la struttura bicamerale paritaria del nostro parlamento (Camera e Senato che svolgono le stesse funzioni), dall’altro “riducendo” la conflittualità nei rapporti tra Stato e regioni. È questa una visione riduttiva e sbagliata. Riduttiva, perché tende a delimitare l’intervento della riforma solo ai due organi più direttamente coinvolti, mentre la riforma coinvolge per intero la nostra forma di governo (le relazioni e l’assetto complessivo tra i poteri e tra gli organi costituzionali). Sbagliata, perché gli effetti della riforma produrranno esiti opposti a quelli auspicati di semplificazione.
Spiego il primo punto. Se si vuole comprendere qual è l'”assetto” istituzionale di un determinato paese (ovvero, come è nel nostro caso, i suoi cambiamenti), non ha senso l’esame separato dei singoli organi, ben più importante è il loro esame congiunto. È chiaro, infatti, che se si indebolisce un organo/potere (mettiamo il potere legislativo), indirettamente ma sostanzialmente se ne rafforza un altro (mettiamo il potere esecutivo). Ed è proprio questo quel che avverrà ove entrasse in vigore la riforma costituzionale. Il potere parlamentare si indebolirà, così come quello delle Regioni, a scapito di un’esaltazione del potere esecutivo, del governo centrale. È esattamente l’opposto di quel di cui abbiamo bisogno. Verrà ad aggravarsi una tendenza involutiva che da anni stiamo subendo e che nessuno sembra intenzionato ad arrestare. Una tendenza alla verticalizzazione ed alla concentrazione dei poteri. È questo il volto più temibile della riforma, poiché appare rifiutare le logiche stesse che devono governare le società pluraliste e conflittuali per come sono state definite dal costituzionalismo democratico. Se si volesse reagire a questa involuzione si dovrebbe fare esattamente il contrario: estendere il potere delle istituzioni rappresentative (dal parlamento ai tanti altri luoghi ove si forma la rappresentanza politica e sociale), diffondendo il potere anziché concentrarlo.
Peraltro – è questo il secondo aspetto che volevo evidenziare – la riforma costituzionale non riuscirà neppure ad ottenere i risultati auspicati (o solo propagandati). Non si avrà una riduzione della conflittualità. Né di quella sociale, né di quella propriamente istituzionale. La conflittualità sociale, trovando sempre meno sedi istituzionali di confronto, sarà preda – ancor più che non già ora – del populismo e dell’esasperazione impotente. Tra sistemi elettorali sempre più escludenti e istituzioni rappresentative sempre più impotenti, la mediazione sociale diventerà sempre più difficile. La conflittualità propriamente istituzionale, poi, renderà ancor più problematico il rapporto tra tutti gli organi (governo, parlamento, Corte costituzionale, presidente della Repubblica, regioni). Farò solo un esempio: s’è cambiato l’assetto bicamerale per velocizzare l’iter di formazione delle leggi (sul presupposto falso che sia il bicameralismo la causa della cattiva legislazione) e si sono moltiplicati i modi, le competenze, le funzioni dei due rami del parlamento, aumentando i casi di possibile conflitto. In sostanza si vuole passare da un bicameralismo paritario ad un bicameralismo caotico.
2. Con la riforma costituzionale si rischia una ulteriore sottrazione di democrazia? In quale direzione?
La discussione sulla democrazia che si svolge attualmente nei media a me appare stucchevole essenzialmente perché non sembra cogliere l’essenza del problema. Mi spiego. Da un lato, si denunciano i rischi di un’improvvisa fine dalla democrazia, dall’altro si invita a guardare alla riforma come un mezzo per rendere più efficiente un potere ritenuto di sicuro democratico in quanto eletto. Entrambe le posizioni non si avvedono che ciò che è ora in gioco non è la nozione astratta di “democrazia”, bensì la sua qualità. Da un punto di vista sostanziale (la “qualità” della democrazia) allora può ben dirsi che la riforma si caratterizza per una ulteriore chiusura del kratos rispetto al demos. Diciamo in breve, una riforma che vuole istituzionalizzare quel modello di democrazia d’investitura che guarda al popolo “un solo giorno”, quello delle elezioni. Poi, per i restanti cinque anni esecutivi “stabili” (meglio sarebbe dire inamovibili) e istituzioni svuotate penseranno a governare “per il popolo, ma senza popolo”. Qui il conflitto con il modello di democrazia che la nostra costituzione ha fin qui auspicato appare evidente. La costituzione italiana non sarà “la più bella del mondo”, ma è certamente quella che nel dopoguerra ha prospettato nel nostro paese per la prima volta una democrazia innervata di partecipazione e che ha tentato di assicurare al demos una sua rappresentanza reale e continua. Certo, tutto ciò in un epoca storica dove i maggiori canali di partecipazione erano i partiti e i sindacati. Oggi né gli uni né gli altri appaiono godere di ottima salute, ma – mi chiedo – la crisi di questi comporta anche la necessità di abbandonare il modello di democrazia partecipativa? La riforma dice di sì. Io ritengo invece che si dovrebbe pensare a nuove forme di partecipazione con lo scopo di ricongiungere il demos al kratos.
3. In maniera forse implicita, ma l’inserimento già avvenuto del “pareggio di bilancio” in Costituzione non ha modificato strutturalmente la stessa, facendole perdere la neutralità rispetto al sistema politico-economico in favore del modello neoliberale?
L’introduzione del principio del “pareggio di bilancio”, in effetti, costituisce un precedente inquietante. Che va oltre la portata – pur negativa – della nuova regola che impone un equilibrio finanziario. L’elemento di “rottura” più grave è rappresentato dall’abbandono del carattere di “compromesso” proprio della nostra costituzione. Il termine “compromesso” è spesso utilizzato con un accezione negativa, ma per le costituzioni intese come pactum consociationis essa è una necessità. Il conflitto e la divisione sono ammessi – anzi promossi e favoriti – entro un quadro unitario che la costituzione fornisce a tutti i consociati, nessuno escluso. Sarà poi la libera dinamica politica a determinare gli indirizzi di governo, a far prevalere l’una o l’altra tra le diverse strategie sociali ed economiche. È per questo che le costituzioni devono essere “pluraliste”. Vero che c’è un altro modello, storicamente legato alle costituzioni intese come pactum subiectionis. In questi casi non c’è da ricercare nessun compromesso, c’è solo da imporre una determinata visione del mondo, quella dei vincitori sui vinti. Ebbene, la riforma delle regole di bilancio hanno, almeno in parte, seguito questo secondo modello. S’è imposta una regola di stampo ideologico neoliberale, espungendo dall’ordine del possibile costituzionale ogni altra visone del mondo. Uno sbrego rispetto al contesto costituzionale che rimane legato al primo dei due modelli.
4. Se vince il No, quali passi successivi ritiene andrebbero avviati?
Se dovesse vincere il No al referendum avremmo evitato il peggio, ma certo non avremmo creato il meglio. Anzi, a quel punto non avremmo più molte scuse, se ci adagiassimo “sugli allori” di una vittoria pure importante, ci ritroveremmo a breve in una situazione analoga se non peggiore. La storia anche recente lo mostra. Dopo la vittoria straordinaria nel referendum sull’acqua-bene comune si è rapidamente tornati al punto di partenza (i decreti sui servizi pubblici che stanno per essere approvati azzerano sostanzialmente le faticose conquiste e speranze del referendum del 2011). In fondo lo stesso referendum costituzionale del 2006 non ha impedito oggi di ritrovarci con una altra proposta anche’essa di natura regressiva e d’impronta conservatrice. Dunque, o avremmo la forza e la capacità di affrontare i reali punti di crisi che ci hanno condotto a questa riforma oppure lasceremo di nuovo spazio a chi ritiene che le costituzioni vadano cambiate per adeguarsi al tempo del regresso. Devo dire che temo quest’esito scorgendo in molti che pure si dichiarano contrari a questa riforma una forte sottovalutazione dell’importanza della dimensione istituzionale delle lotte per i diritti. A volte c’è un vero e proprio pregiudizio nei confronti della lotta per i diritti, convinti che essa possa svolgersi ed esaurirsi tutta e solo sul piano sociale. Ahimè non è così. Se la battaglia contro la riforma costituzionale potesse servire anche a far riscoprire la dimensione istituzionale ai movimenti avremmo fatto un grande passo avanti. E da qui potremmo ripartire.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 26 di Novembre-Dicembre 2016 “Voglio cambiare davvero, quindi voto NO!“