di Antonio De Lellis (Attac Italia)
Guardare alla guerra in Ucraina è sempre più un esercizio di opinioni di esperti più o meno affidabili, e di voci diverse che spesso si confondono e ci confondono. Abbiamo bisogno di lenti di ingrandimento adeguate per comprendere e individuare forme di lettura affidabili e possibilità di intervento. Le lenti che propongo di utilizzare sono: la prospettiva dalla quale osserviamo i fatti; la percezione e il significato che diamo alla storia vissuta; la capacità di attrazione dei vari modelli e blocchi, spesso contrapposti.
Qual è la nostra prospettiva? Se è Occidentale, ovvero interna al ruolo della Nato e dell’Europa rispetto a quella della Russia, rischiamo di schiacciarci su posizioni semplicistiche che si riducono alla condanna netta o alla giustificazione o spiegazione dell’aggressione dell’esercito di Putin. Se è quella dei molti paesi che non hanno votato le sanzioni alla Russia in sede ONU, potremmo considerare altri aspetti che hanno un possibile comune denominatore nell’espressione efficace: “ora potrete capire cosa significa vivere nei conflitti armati”. Tenendo conto che spesso, per loro, l’Occidente è anche parte in causa o perché belligerante o perché fornitore di armi.
Il problema di Putin e di coloro che sostengono l’esistenza delle sfere d’influenza russa e cinese, è che tali sfere non sono ereditate né sono create dalla geografia, dalla storia o dalla tradizione. Sono acquisite dal potere economico, politico e militare che gli Stati Uniti possiedono più della Cina e che la Russia non ha. Da questo punto di vista la Russia aveva già fallito prima di iniziare la guerra perché il comunismo sovietico belligerante prima e il capitalismo mondiale poi avevano già ridotto di molto la capacità di attrazione del modello russo. Cosa restava alla Russia per tentare di riprendere la sua sfera di influenza, almeno al suo interno? Far presa sullo spirito patriottico riducendo al silenzio il dissenso interno e quello dei paesi dell’ex Unione Sovietica, cancellando i loro tentativi di democratizzazione e di farsi attrarre dall’Occidente europeo e statunitense.
Ma questa guerra in Italia sembra aver aperto una faglia che può essere riassunta nella riduzione del riconoscimento del ruolo egemonico dell’America. Dalla fine della seconda guerra mondiale la politica statunitense, anche in Italia, ha determinato e condizionato le possibili svolte politiche, limitando di fatto la libertà di scelta. Oggi, forse in modo insolito, si sta determinando una contrarietà all’invio di armi e una considerazione della politica internazionale statunitense come sempre meno in sintonia con i sentimenti di un popolo stremato dalla pandemia. Gli italiani vedono nell’invio di armi un prolungamento del conflitto che sta causando un possibile tracollo sociale. Quindi, anche gli Usa stanno facendo i conti con una riduzione della loro capacità di attrazione.
Il bene comune mondiale coincide con la pace, senza di essa non ci sono economia, contrasto ai cambiamenti climatici e solidarietà tra tutti i popoli. I nuovi processi sociali dovranno sempre più fare i conti con Disarmo, Natura e Accoglienza, il DNA di qualunque forma di società futura.
Perché è così necessario parlare di Disarmo generalizzato, contemporaneo e congiunto? Nulla viene difeso in una logica di corsa agli armamenti, tutto può essere perso in una logica di confronto armato per tentare di risolvere i conflitti. Possiamo ancora credere che la sicurezza dipende dalla capacità di difendersi con le armi da chi ci attacca, proprio perché sempre più armati? Non è piuttosto che la nostra sicurezza dipende dal disarmo, dalla capacità di mettere al centro la natura, di cui anche noi facciamo parte, di mettere al centro l’accoglienza come espressione di solidarietà?
Solo la compresenza di queste tre principi – Disarmo, Natura, Accoglienza – promossi, rispettati ed attuati può gettare le basi per un nuovo inizio. Un’economia di pace presuppone un’economia della custodia, un’economia della cura. Il passaggio da un’economia della proprietà ad un’economia della custodia richiede una trasformazione culturale, antropologica ed etica che ci consegni strutture democratiche inclusive, partecipative, sociali, antidoto alla corruzione, allo spreco di cibo e di denaro, ma dentro un progetto economico di riappropriazione del lavoro.
Superare le diseguaglianze e le iniquità sarà possibile dentro una revisione fondamentale delle strutture del debito che incatenano interi popoli. Questo è inderogabile e attuabile, ma dentro una logica economica che riscopra il proprio alveo naturale di scienza sociale non piegata al potere dei forti, bensì alla forza di abitanti liberi dalla cecità che riproduce leader politici incapaci di affrontare le sfide epocali dinanzi alle quali ci troviamo.
Oggi siamo sull’orlo di un precipizio sociale, antropologico, economico, ambientale: con uno stile il meno dogmatico possibile, occorre scegliere l’opzione di un’economia della custodia, della pace, della cura, contro e oltre l’economia del profitto e della speculazione che sta scommettendo perfino sulla crisi alimentare.
In questa prospettiva dovremmo attivare una “diplomazia dei movimenti” che faccia del dialogo e confronto anche con i paesi del Mediterraneo, il centro di una fitta rete di collegamento per evitare che i prevedibili flussi epocali e forzati di migrazioni, dal nord Africa per esempio, acuiti dalla crisi alimentare, ci colgano di nuovo di sorpresa. Il nostro riferimento deve includere sempre di più l’arco dei paesi che dal Libano arrivano fino all’Algeria.
Saremo in grado di prevedere e di incanalare i conflitti sociali che verranno generati dalla crisi economica e sociale nel Mediterraneo? Forse siamo talmente presi dalle questioni interne o dallo sguardo rivolto ad un’Europa ondivaga e confusa sulla posizione da assumere verso il conflitto in Ucraina, da farci dimenticare che un’alleanza duratura sarà possibile solo con quei paesi poveri e stretti nella morsa di una colonizzazione anche europea e che subiscono, come spesso accade, gli effetti della politica Occidentale sul versante energetico, climatico e militare. Saremo in grado di costruire un nuovo modello che vada oltre quello attuale tecnocratico, economico e militare? Credo che valga la pena provarci, scrollandoci di dosso la polvere degli errori e della miopia stanca e sterile. In questa visione, le alleanze, il dialogo e il confronto saranno gli strumenti della nuova economia di pace. Solo una prospettiva ed una percezione di pace potrà avere capacità di attrazione e costituire il modello sociale ed economico di un futuro possibile.
Foto: Studenti Autorganizzati Campani – 25 marzo 2022, Sciopero globale per il clima, Napoli.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 50 di Giugno-Luglio 2022: “Guerra e migranti, guerra ai migranti“