Per una finanza bene comune

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di Nicoletta Dentico

La crisi finanziaria che ha fatto irruzione nelle nostre vite dieci anni fa ha inesorabilmente mutato il mondo in cui viviamo. Nonostante i segnali di ripresa siano reali – e sempre annunciati con una certa enfasi imbonitoria nel nostro Paese – le ferite umane e sociali della prima crisi economico-finanziaria a effetti planetari sono ancora aperte, e di non facile rimarginazione. Che ci piaccia o no, e non ci piace affatto, il rilancio dell’economia che gli esperti raccontano è molto labile e disomogeneo. I guadagni del mercato sono distribuiti in modo iniquo. Per la maggior parte di quanti sono stati affossati dalle dinamiche della crisi non si registrano particolari spiragli in vista. Le macerie imprenditoriali di un decennio vissuto pericolosamente, quelle, si vedono molto bene invece.

Si inseguivano le notizie sui tracolli di banche e mercati, dieci anni fa, e tutti convergevano sul fatto che sarebbe stato necessario attuare una profonda riforma dell’intero sistema finanziario.  Un decennio dopo, fatta eccezione per qualche ritocco (come quello sui bonus dei CEO delle grandi banche), nulla è veramente cambiato.  Molto invece è mutato per il debito degli stati. Per anni, questi hanno pompato soldi pubblici per salvare banche di dimensioni troppo rilevanti per collassare (“too big to fail”) o per essere chiamate a qualche responsabilità legale (“too big to jail”).   Non a caso l’industria speculativa è andata alla grande grazie ai miliardi di dollari erogati. Una ulteriore spinta ai mercati finanziari è arrivata dal 2016 in poi con l’elezione di Donald Trump, spiega il Wall Street Journal. In campagna elettorale, Trump aveva promesso di voler stracciare le poche regolamentazioni poste in essere dopo la crisi.   

Uno studio del 2017 di due ricercatori del Fondo Monetario internazionale si è preso la briga di rappresentare numericamente il quadro sconfortante della crisi finanziaria in Europa, e di calcolare il salasso che i diversi crack bancari hanno riversato sulle comunità nazionali di riferimento. Solo per fare qualche esempio, l’Irlanda ha visto contrarre i dati sulla crescita del 100%, mentre in Islanda il debito pubblico si è gonfiato del 72%   rispetto al Pil. La crescita in Italia si è ridotta del 32% e il debito è andato su dell’8,6%.   Ma mentre si dilatavano i debiti pubblici, le misure di austerity – già sistematicamente applicate nel sud del mondo da decenni – facevano il loro debutto in Europa, schiacciando interi paesi come nel caso della Grecia e alimentando la disuguaglianza economica tra le persone. Le disparità di reddito sono rimbalzate praticamente ai livelli di un secolo fa, e le forme della disuguaglianza hanno assunto una complessità mai vista prima: attraversa i singoli paesi, riguarda reddito e ricchezza, lavoro e genere, generazioni e origine etnica.  Il “modello perfetto delle crescenti disuguaglianze”, come lo definisce Thomas Pogge, si è affermato con forza quasi inarrestabile. Mentre si fa un gran parlare di obiettivi dello sviluppo sostenibile, la capacità delle politiche nazionali di affrontare questi fenomeni sembra ridotta perlopiù a un senso di fatalistica impotenza. La polverizzazione dei diritti umani fondamentali (diritto al lavoro, al credito, alla salute, alla casa), invece, è paradossalmente per molte donne e uomini la sola realtà con cui fare i conti ogni giorno.

E’ Warren Buffet, uno dei massimi protagonisti della finanza mondiale e tra gli uomini più ricchi del pianeta, a raccontare la giusta storia quando afferma che “la lotta di classe esiste e noi l’abbiamo vinta”.  La lotta di classe non è mai stata tanto in voga come di questi tempi, in effetti, e su scala globale appunto. Lo dicono i numeri che pubblica ogni anno con singolare accuratezza la banca svizzera Credit Suisse nel Global Wealth Report, il rapporto sulla ricchezza globale (ovvero sulla sua progressiva concrentrazione). Un inequivocabile colpo d’occhio sulla patologia in cui versa il mondo si evince dalla piramide della ricchezza nel 2013:

piramide 580x326Credit Suisse, Global Wealth Report  2013  

Ma la sproporzione qui rappresentata è poca cosa rispetto ai dati successivi. Le tendenze degli ultimi anni da record storici di opulenza confermano una forbice di distribuzione ancora più agghiacciante. Secondo il Global Wealth Report 2017 :- lo 0.7% della popolazione sul pianeta controlla il 45,9% della ricchezza globale;- la ricchezza globale è cresciuta in media del 6,4% nei 12 mesi del 2017, l’aumento più rapido dal 2012, e maggiore di quella demografico;- la ricchezza ha raggiunto la cifra record di 16,7 trilioni di dollari solo nel 2017, ovvero 56,540 dollari per persona adulta, se questi soldi fossero ripartiti equamente;-  la ricchezza in Europa è salita in media del 6,4%: Germania Francia Italia e Spagna stanno nella vetta dei primi dieci paesi con la più elevata ricchezza.

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Soldi rubati, perlopiù: si stimano dai 21 ai 32 trilioni di dollari in asset finanziari nei paradisi fiscali, una immane ricchezza offshore nascosta nelle isole del tesoro sparse per il mondo e sottratta a ogni forma di tassazione a favore della pubblica utilità. Panama Papers, Paradise Papers, sono le vicende che hanno variamente animato la narrazione di questo decennio di incessanti migrazioni finanziarie da nord a sud e da sud a nord, senza troppe distinzioni tra filiere della legalità e fondi illeciti della criminalità organizzata internazionale.  

Insomma i soldi fanno girare il mondo, ma se girano dalla parte sbagliata finisce che il mondo si impalla. Della prossima crisi finanziaria, al contrario di dieci anni fa, non sapremo neppure la provenienza, dice un recente rapporto della Deutsche Bank.  Quanto basta per alimentare quella che lo scrittore indiano Pankaj Mishra denomina l’Età della Rabbia, un tempo di guerra civile globale segnato da un “mix intenso di invidia e senso di umiliazione e impotenza”.  E’ l’impasto della tossica atmosfera di guerre e instabilità geopolitica che avvolge il mondo.  Se, nonostante tutto, le cose non cambiano, è anche perché le opinioni pubbliche nel loro insieme non riescono ad attivarsi ancora per trasformare questi scandali della contemporaneità in opportunità politica per rivendicare con forza nuove regole del gioco, una norma vincolante globale che sappia tenere a freno le intemperanze delle grandi multinazionali finanziarie.

Non che sia cosa facile, e realizzabile con azioni di breve corso, è evidente.  Ma non è più possibile lasciare il tema della finanza agli esperti delle speculazioni o agli studiosi del mondo accademico. In questo senso, entrare nel mondo della finanza etica significa inserirsi in una palestra di cittadinanza economica attiva. Significa aprirsi a una comunità epistemica che usa il denaro secondo modelli di partecipazione, trasparenza e relazione tra persone, per promuovere il bene comune. Significa rielaborare completamente le logiche e le pratiche del profitto, per rimetterlo in circolo sui territori con finalità di giustizia sociale e ambientale, ben oltre la mera logica dell’accaparramento individualista. Mai come oggi è urgente la diffusione e la opzione di questa finanza, come forma di militanza politica.Non possiamo permetterci un altro decennio come quello che abbiamo appena passato.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 33 di Marzo – Aprile 2018: “Fuori dal mercato

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