di Marco Bersani
Nell’aprile 2012, il nostro Paese ha inserito il pareggio di bilancio in Costituzione (art.81). Per i mastini dell’Ue sarebbe bastata una legge ordinaria, ma erano i tempi del governo Monti e il “nostro” doveva dimostrare particolare solerzia nell’eseguire il compito per cui era stato scelto: attuare con determinazione le politiche di austerità richieste dall’Unione Europea. Nel dicembre del medesimo anno è stata di conseguenza approvata la legge n.243/2012 di attuazione del principio del pareggio di bilancio.
La legge avrebbe dovuto divenire operativa a partire dal gennaio 2016, ma, evidentemente preoccupato per l’esito delle prossime elezioni amministrative, il governo Renzi, non potendo in alcun modo modificarla (poiché si tratta di una legge “rafforzata”, la cui riforma necessita della maggioranza assoluta di Camera e Senato), ha optato per una “proroga interpretativa” al 2017.
Di fatto, mentre il pareggio di bilancio, oltre a nuovi vincoli sulle possibilità d’indebitamento, impone agli enti locali di rispettare il pareggio nei saldi di parte corrente e finale, di cassa e competenza, a preventivo e a consuntivo (in pratica, la drastica riduzione di ogni spesa sociale e di ogni possibilità d’investimento), il governo Renzi ha stabilito che le novità si applicano a partire dai bilanci preventivi che in via ordinaria si approvano nell’arco del 2016, con conseguente operatività delle misure a partire dal 2017.
Un escamotage talmente debole da essere già stato “sanzionato” dalla Corte dei Conti, che con una recentissima delibera (n. 527/2015), pone il suo macigno sulle mosse elettoralistiche del premier, evidenziando come gli enti locali debbano da subito attenersi a quanto stabilito dalla Legge 243/2012, e considerare il principio del pareggio di bilancio nella forma esaustiva prevista dalla normativa costituzionale.
Ci sarebbe da ridere, se non fosse che queste scaramucce interpretative hanno poi un risvolto concreto e drammatico per la vita delle comunità locali: significano tagli alle spese sociali, aumento delle tariffe sui servizi, svendita del patrimonio pubblico e del territorio, privatizzazioni.
Con il paradosso di far ricadere sui Comuni –e quindi sui cittadini- oneri costruiti ad arte dall’ideologia liberista, che ha bisogno dello shock del debito pubblico per poter continuare le politiche di spoliazione della ricchezza sociale.
Basterebbe attenersi ai dati per evidenziare la truffa.
Vediamone alcuni, tratti dal “Rapporto IFEL sulla finanza locale 2014”:
a) la spesa pubblica italiana, al netto della previdenza e degli interessi sul debito, è pari al 33,8 del Pil ed è di 4,8 punti in meno della media europea;
b) sulla spesa complessiva della Pubblica Amministrazione pari a 801 miliardi/anno, i Comuni incidono solo per il 7,8%;;
c) sul debito complessivo dello Stato pari a 2.280 miliardi, i Comuni concorrono solo per il 2,7%.
Nonostante queste illuminanti percentuali, negli ultimi sette anni (2008-2014) agli enti locali sono stati sottratti 19 miliardi grazie al patto di stabilità e 12 miliardi di mancati trasferimenti erariali, mentre il personale ha subito una contrazione dell’11.1% (quasi 60.000 lavoratori in meno), facendo salire alle stelle il contributo complessivo dei Comuni alla stabilità finanziaria (+909%).
Sono cifre, ma, dentro ogni città, sono vite e persone che hanno perso servizi, reddito, diritti, speranze. E che, dal prossimo anno, quando la trappola del patto di stabilità sarà sostituita dalla ancor più stringente gabbia del pareggio di bilancio, vedranno peggiorare ulteriormente le loro condizioni.
Forse è venuto il momento di far saltare collettivamente il banco e di rivendicare, dopo due decenni di ossessione finanziaria, il pareggio di bilancio sociale e la fine del deficit di diritti e democrazia.