di Caterina Borelli (Rete SET)
Nel 2015 vivevo ancora a Barcellona, e le proteste di quell’estate contro il turismo dilagante che si stava fagocitando la città (lo fa ancora) le ricordo bene. Su di esse aleggiava irrimediabilmente lo spettro di Venezia: “non vogliamo finire così!”. Nei cartelloni altrui, Venezia appariva non più come una città ma piuttosto come un paradigma, un memento mori. Venezia come sindrome, una malattia terminale caratterizzata dal collasso della vita urbana. Venezia elevata a teorema che non ha più bisogno di alcuna dimostrazione empirica a sostenerlo(1).
Quest’immagine della città morta pare a me sterile tanto quanto la cartolina romantica venduta dalle agenzie turistiche di tutto il mondo. Chi conosce la città sa che potrà essere malconcia, ma morta non lo è affatto(2). Un dato resta però inconfutabile: Venezia è la città più turistificata al mondo. Non quella più visitata, attenzione -da qualche anno la classifica mondiale è guidata da Bangkok(3)-, ma quella in cui maggiore è la sproporzione tra abitanti e visitatori: 30 milioni contro 53 mila (e domani saranno probabilmente meno), se contiamo solo i residenti della città storica senza isole, che negli ultimi sessant’anni si sono ridotti del 66% mentre gli arrivi via terra, mare o cielo nello stesso periodo sono aumentati del 530%. La media giornaliera di visitanti è di 55.000 persone: il sorpasso è oramai avvenuto.
Del resto, questa è la città che l’industria turistica se l’è inventata: correva il secolo XIIIº quando i veneziani iniziarono ad organizzare una rete di ospitalità composta di locande, taverne, foresterie nonché i primi embrioni di agenzie di viaggio per intrattenere le schiere di crociati e pellegrini diretti in Terra Santa che transitavano in laguna, dove a volte rimanevano bloccati anche per mesi, quando le navi non potevano salpare(4) . Eppure, anche di fronte ai numeri schiaccianti di oggi, affrontare la questione parlando di “turismo di massa” risulta inaccurato: pure Parigi e Londra ricevono turismo di massa, eppure non soffrono dello stesso male. C’è chi considera più appropriato ricorrere ad nuovo termine, saltato alla ribalta nel 2017: overtourism, inglesismo traducibile con un poco incisivo “eccesso di turismo”, che pone l’accento più sul dato qualitativo che su quello quantitativo. Non si tratta tanto –o non solo- di quanti visitatori si registrano in un determinato luogo in un anno, quanto piuttosto della sensazione –sia da parte dei locali che degli stessi ospiti- che essi siano troppi. E se la definizione di “troppi” è soggettiva, i sintomi sono chiari, li conosciamo tutti: “quando i prezzi degli affitti espellono gli inquilini locali per fare spazio alle case vacanza, questo è overtourism. Quando le stradine strette sono intasate di veicoli turistici, questo è overtourism. Quando la fauna scappa, quando i turisti non possono vedere i monumenti a causa della folla, quando ecosistemi fragili si degradano – questi sono tutti segnali di overtourism” (5).
Se gli effetti dell’overtourism sono locali, le cause sono globali: l’aumento della popolazione mondiale, con la conseguente espansione delle classi medie che hanno disponibilità a viaggiare, combinato all’abbattimento dei costi dei trasporti e l’effetto amplificatore dei social media che sempre di più svolgono un ruolo chiave nel promuovere vecchie e nuove destinazioni(6), fa sì che il turismo non conosca crisi. La sua espansione ha portato dai 25 milioni di turisti del 1955 ai 1,4 miliardi del 2018, con una crescita del 6% rispetto all’anno precedente(7) .
Persino i manuali scolastici ci dicono che oramai, “in termini di denaro speso, l’industria turistica è la più grande del mondo”(8). Eppure, questa nozione del turismo come industria –pesante, estrattiva, a forte impatto ambientale- fa ancora fatica a scalzare la visione classica del turismo, inteso come il diritto di ognuno di noi allo svago, all’evasione. Del resto, se noi viaggiamo, perché non dovrebbero poterlo fare anche gli altri? Inoltre, la narrativa che vede il turismo come fonte di benefici per tutti –per chi viaggia e per chi riceve- supportata per altro dai dati macro –il turismo ha contribuito al 10% del PIL mondiale nel 2017(9) – è ancora dominante, nonostante il sempre maggior numero di voci critiche che si stanno alzando in molte parti del mondo, e che mettono in evidenza le esternalità negative del fenomeno, abbia cominciato ad incrinare la sua solidità.
Contrastare questa narrativa che continua a proporre il turismo come unica soluzione di crescita per le economie in crisi è stato uno dei motori che ha spinto una serie di collettivi provenienti dalla sponda nord del Mediterraneo ad associarsi in una piattaforma che ha mosso i primi passi a Palma de Mallorca nel 2017, nel corso di un incontro internazionale sull’impatto ambientale dell’industria turistica. Si è partiti dalla consapevolezza dell’esistenza di problematiche comuni –dal crocerismo alla crisi degli alloggi, dalla precarizzazione del lavoro alla mercificazione dello spazio pubblico- e di come esse si siano particolarmente inasprite con la crisi economica scoppiata nel 2008 il cui impatto è stato specialmente duro per i paesi dell’Europa meridionale.
Pochi mesi dopo, si era nel maggio del 2018, è stata presentata ufficialmente la rete SET – Sud Europa di fronte alla turistificazione, che al momento riunisce più di venti realtà territoriali tra Italia, Spagna, Portogallo e Malta. Come i numerosissimi altri movimenti sorti negli ultimi anni su scala globale, uno dei punti chiave dell’operato di SET è rendere visibile il modo in cui l’industria turistica, soprattutto da quando sono comparse in scena le piattaforme digitali di affitti a breve termine, sta intaccando il diritto all’abitare di ampi settori di popolazione nei territori a maggior densità turistica. Le fasce di reddito più basse sono quelle che maggiormente risentono della “bolla degli affitti” che attori come Airbnb o i fondi immobiliari hanno contribuito a creare, bolla che però sempre più sta coinvolgendo anche le classi medie. Il risultato è tristemente noto: nelle città over-turistificate trovare casa in affitto a prezzi ragionevoli –o trovare casa in affitto tout court– è diventata impresa ormai impossibile, e sempre più persone sono costrette a trasferirsi lontano dai centri storici.
La trasformazione delle città in dormitori per visitatori di passaggio è più rapida laddove l’appetibilità economica dei benefici offerti dalle piattaforme non è in qualche modo arginata dalle normative locali. Poniamo nuovamente il caso di Venezia: Airbnb nasce nel 2008 (sì, l’anno della crisi) ma il suo impatto sul mercato immobiliare locale non si è fatto sentire davvero fino al 2013, anno in cui viene varata la Legge Regionale n. 11/2013, art. 27/bis, che ha liberalizzato il settore della ricettività extra-alberghiera, introducendo la categoria delle locazioni turistiche a gestione semplificata, senza alcun limite, né di giorni all’anno né di numero di proprietà per persona. Questo articolo, che è stato originalmente concepito soprattutto per risollevare le economie di quei territori, come il litorale e le regioni montane, in cui vi è una sovrabbondanza di seconde case infrautilizzate, ha avuto su Venezia un effetto devastante, con un aumento esponenziale dei posti letto a breve termine e la conseguente perdita netta di più di 4.000 interi appartamenti sottratti alla fruizione residenziale nella sola città storica (a cui si aggiungono il numero sempre crescente di proprietà in terraferma e nelle isole e gli alberghi, per un totale di 7.374 strutture ricettive in territorio comunale). Il sito Inside Airbnb offre uno spaccato della città che non lascia dubbi su come realmente venga utilizzata la piattaforma(10) : il 75% degli annunci si riferiscono ad intere proprietà, e non a stanze in condivisione affittate per arrotondare; il 70% degli anfitrioni sono multi-host, ovvero posseggono o gestiscono (difficile distinguere) più proprietà; l’87% degli appartamenti è disponibile per la maggior parte dell’anno, il che significa che sono destinati esclusivamente alla locazione turistica.
Un’analoga situazione di concentrazione della ricchezza generata dalle affittanze brevi la ritroviamo a Roma, dove l’1% degli host più ricchi, ovvero con più alloggi in affitto, gestisce il 24% del totale dei redditi generati da Airbnb, mentre il 10% ne gestisce il 68%(11) . Redditi, è bene ricordare, facilmente occultabili al fisco, per lo meno in Italia: tanto che c’è chi suggerisce di sostituire la dicitura sharing economy, che di condivisione tra pari oramai s’è capito avere poco, per quella più realistica di shadow economy (12).
Nonostante questi numeri da capogiro conferiscano alla problematica del diritto all’abitare nella città turistificata il ruolo di indiscussa protagonista, il fenomeno dell’overtourism è più complesso di così: coinvolge una molteplicità di attori, individuali e collettivi, a diversi livelli -in continui scarti dal piano locale a quello globale, dal pubblico al privato, dal politico all’economico fino a quello culturale- e in differenti sfere –dalle infrastrutture ai trasporti, dallo spazio urbano alle aree naturali, dal commercio alle industrie culturali. Riflesso della complessità del fenomeno è il moltiplicarsi dei fronti che vi si oppongono, soprattutto per quel che riguarda i movimenti cittadini dal basso che in numero sempre maggiore si organizzano per contrastare quella che vivono come un’usurpazione dei territori da parte di un’industria turistica rapace ed apparentemente incontrollabile.
In Italia in particolar modo, la rivendicazione di quel diritto alla città teorizzato da Lefevbre nel 1968 e ripreso dai movimenti anticapitalisti di mezzo mondo, pare aver trovato una declinazione specifica nella battaglia per i beni comuni. L’economia e le scienze politiche intendono i beni comuni, conosciuti in inglese come commons o common pool resources (CPR), come quelle risorse (naturali, costruite o socioculturali) la cui fruizione da parte di un individuo o gruppo riduce la quantità disponibile agli altri (sottraibilità), ma da cui allo stesso tempo non si possono escludere gli altri utenti (non escludibilità). Helen Briassoulis osserva come la questione dei CPR nelle aree turistiche sia centrale, giacché tutte le risorse turistiche possiederebbero queste due caratteristiche definitorie dei CPR(13) , mentre Memon e Selsky, in riferimento ai contesti turistici, parlano di CPR complessi che si differenziano dai CPR semplici per il loro essere soggetti a molteplici usi, che si sovrappongono ed entrano in conflitto tra di loro; per la volatilità degli schemi d’uso e del quadro istituzionale; per la variabilità tra diritti di proprietà de jure e de facto (14).
Se torniamo al caso veneziano – ma possiamo applicare lo stesso schema a quasi tutte quelle che definiamo comunemente “città d’arte” – il principio della sottraibilità si traduce, da una parte, nel congestionamento degli spazi pubblici (solidi ed acquei) e, dall’altra, nella progressiva alienazione del patrimonio pubblico e nella sua riconversione d’uso a fini turistici. Ilaria Agostini (15) trasla al contesto urbano il modello estrattivista(16) che “assume i tratti di accumulazione di capitale a spese della città, che è, per definizione, costruzione collettiva e bene comune, nonché giacimento limitato”. L’estrazione di rendita di fatto mette a profitto il patrimonio comune della città: così, a Venezia assistiamo da anni alla svendita di edifici pubblici, con la conseguente espropriazione dell’agibilità dei servizi che porta ad un inevitabile impoverimento dello spazio della vita civica –è così per le poste centrali, la corte d’appello, l’ufficio scolastico regionale, il catasto…-. Complici una serie di dispositivi normativi -specificatamente La Legge 112/2008 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica” che dà facoltà agli Enti locali di redigere un elenco degli immobili pubblici posti in vendita–, il Piano delle Alienazioni –da allegare al bilancio di previsione dell’ente stesso– e la giustificazione del debito pubblico che renderebbe ineluttabili quelle alienazioni, intere aree pubbliche vengono privatizzate nonostante quanto previsto dal Piano Regolatore, e trasformate in proficue attività ricettive.
Contro quello che oramai è diventato l’escamotage preferito (ma fallimentare sul medio e lungo periodo) per ridurre il debito (17), si battono comitati e associazioni locali che mettono in atto pratiche diversificate con il fine di salvaguardare pezzi di città ad uso collettivo ed inclusivo. Accade con l’Isola di Poveglia, per cui gli abitanti hanno raccolto una ingente somma di denaro per partecipare all’asta che la metteva in vendita, con l’Antico Teatro di Anatomia di Venezia, riaperto dalla comunità locale e al centro di una battaglia urbanistica, per l’area degli ex Gasometri, dell’ex Orto Botanico entrambe private ma abbandonate su cui incombono progetti di conversione d’uso da pubblico/residenziale a ricettivo, e un lungo eccetera (18) …
Ce ne sarebbe da scrivere, ma il titolo di questo pezzo prometteva una veloce panoramica, e così sarà. Riprendiamo però quanto affermato nell’incipit: l’immagine della città morta e la cartolina romantica sono due facce della stessa medaglia, quella che ci porta implicitamente a non prendere in considerazione, e pertanto a disattivare, le voci critiche, i reclami degli e delle abitanti. I morti non protestano, i vivi sì. “Maledetti veneziani! Quando si decideranno a crepare o ad andarsene tutti, così smettono di rompere le palle?”.Giuro che un giorno, camminando per strada, ho ascoltato queste stesse parole. Mi lasciarono così attonita che sul momento non riuscii a reagire; ma al di là della costernazione, del colpo emotivo, la loro spietata durezza ci dimostra meglio di qualunque saggio la necessità, l’urgenza di mostrare Venezia, capofila delle città over-turistificate, come uno spazio urbano contestato, e quindi vivo, sotto l’influenza di relazioni di potere asimmetriche.
Note:
(1) Nel 2012 è uscito un documentario su Venezia per la regia del giornalista altoatesino Andreas Pickler, il cui titolo originale è Das Venedig Prinzip, tradotto in inglese come The Venice Syndrome e all’italiano come Teorema Venezia.
(2) Su questo argomento Francesco Errani ci ha scritto un libro intero, Non è triste Venezia, uscito nel 2018 per Manni Editori (http://www.mannieditori.it/libro/non-%C3%A8-triste-venezia)
(3) http://www.traveller.com.au/worlds-most-popular-cities-for-tourists-2018-named-h164d2
(4) Davis, R.C. e Marvin, G. R. (2004), Venice: the tourist maze. A cultural critique of the world’s most touristed city, University of California Press
(5) https://www.responsibletravel.com/copy/what-is-overtourism
(6) https://www.ilmessaggero.it/viaggi/news/instagram_viaggi_vacanze-4453457.html
(7) http://www.assoturismo.it/onu-14-miliardi-di-turisti-nel-mondo-nel-2018-6.html
(8) Castoldi G. (2006), Nuovo turismo, Hoepli Scuola, p. 3 (vedi: www.hoepliscuola.it/download/463/capitolo-1.aspx)
(9) http://www.ontit.it/opencms/opencms/ont/it/stampa/in_evidenza/WTTC_in_crescita_il_contributo_del_turismo_al_PIL
(10) http://insideairbnb.com/venice/
(11) https://ilmanifesto.it/airbnb-soluzione-tampone-alla-crisi/
(12) http://www.federalberghi.it/UploadFile/2018/09/turismo%20e%20shadow%20economy%20-%20edizione%20settembre%202018.pdf
(13) Briassoulis, H. (2002), “Sustainable tourism and the question of the commons”, in Annuals of Tourism Research, Vol. 29, Nº4, pp: 1065-1085
(14) Memon, P.A. e Selsky J. W. (1996), “Institutional Design for the Co-Management of an Urban-Sited Port in New Zealand: Local Implications of National Reform”, paper presentato alla International Association for the Study of Common Property SixthAnnual Conference, Berkeley, California, USA
(15) https://emergenzacultura.org/2017/07/05/ilaria-agostini-firenze-lespulsione-della-comunita-locale-in-favore-del-turismo-di-lusso-e-del-profitto-dei-pochi/
(16) Zibechi, R., “L’estrattivismo come cultura”, comune.info, 31 ottobre 2016, https://comune-info.net/lestrattivismo-come-cultura/; Salerno, S., “Estrattivismo contro il comune. Venezia e l’economia turistica”, Acme Journal, 2018
(17) https://volerelaluna.it/controcanto/2018/12/01/la-voglia-matta-di-privatizzare/
(18) https://anticoteatrodianatomia.org/venezia-e-anche/
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 40 di Maggio – Giugno 2019. “Una città per tutti“