di Antonio Tricarico
La nascita del governo Letta ha riaperto la discussione su quali misure di finanza pubblica potrebbero rilanciare la crescita economica, ottemperando allo stesso tempo alle misure di rigore, che, seppur un po’ allegeribili, rimangono stringenti per tutti i paesi europei, Italia inclusa.
Qualcuno spera che l’annunciata fine della procedura di infrazione sul deficit per il Bel Paese permetta un più ampio margine di manovra, dimenticando però i nuovi vincoli imposti sul debito e sulla spesa dalla stessa Unione europea.
Così, in nome delle larghe intese, ci si arrovella sulla sospensione dell’Imu sulla prima casa, sul congelamento dell’aumento dell’Iva e sull’incombente nuova tassa Tares sui rifiuti. Una “manovra” di almeno 12miliardi che si vorrebbe fare avvenire senza spostare di una virgola i vincoli di bilancio imposti da Bruxelles. Allo stesso tempo si vorrebbe iniziare a ridurre il debito di altri 25 miliardi di euro, come previsto dal nuovo Trattato fiscale. Senza parlare della necessità di rifinanziare la cassa integrazione, continuare a pagare i crediti verso le imprese, salvare gli enti locali in bancarotta (sempre più numerosi) e rilanciare gli investimenti pubblici in maniera anti-ciclica. E’ vero che lo spread è oggi più basso, ma il pagamento del servizio sul debito pesa sempre in maniera eccessiva.
E’ allora lecito chiedersi da dove derivi l’ottimismo del governo Letta di fronte a quella che sembra una mission impossible? Capiremo di più quando oggi il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni presenterà gli scenari di finanza pubblica, inclusa la necessità di improntare una possibile manovra di aggiustamento in estate. Ma è chiaro che non siamo in un film di Hollywood – nonostante la narrativa buonista dei media mainstream sull’esecutivo nuovo di zecca – e i supereroi non sono tollerati da Bruxelles.
Il tour europeo di presentazione del primo ministro conferma che dopo tanto sbraitare bipartisan contro la Merkel in campagna elettorale, nessuno osa mettere in discussione gli odiosi vincoli europei, limitandosi a sognare un’impossibile ricomposizione di rigore allentato e crescita da finanziare senza nuovi soldi. Una litania che ci perseguita dal 2009, dal vertice del G20 di Londra, senza produrre alcun risultato. Per altro le larghe intese italiane escludono le uniche carte da giocare per rialzare la china: tassare maggiormente le rendite finanziarie e i patrimoni, se non tornare a controllare i movimenti di capitale per contrastare l’evazione fiscale internazionale.
E’ chiaro che, se il governo reggerà ai suoi primi mesi di gestazione politica, non potrà che ricorrere all’ennesima ondata di privatizzazioni per fare cassa e pagare così un po’ di nuovi investimenti pubblici e qualche misura di welfare. Per esempio non si aumenteranno i ticket sanitari, se però si svenderanno immobili pubblici e partecipazioni in utility che forniscono servizi pubblici locali. Tali scelte saranno annunciate come ineluttabili e per il bene dei cittadini, in maniera ovviamente bipartisan. Come insegna l’esperienza del governo Amato “di emergenza” nel 1992, i diciotto mesi che si è dato Enrico Letta bastano per pianificare le privatizzazioni dei prossimi venti anni.