L’Europa va alla guerra

Condividi:

Loading

di Raffaella Bolini  (Arci)

Stiamo andando verso le elezioni europee. E a grandi passi verso la guerra mondiale vera.

A metà febbraio, nella Conferenza di Monaco sulla sicurezza il segretario generale della Nato Stoltenberg, in una dichiarazione congiunta con la presidente della Commissione Europea sulle armi all’Ucraina, ha parlato chiaro: “Dobbiamo passare da un sistema industriale a passo lento, da tempi di pace, a uno dall’alto ritmo, tipico dei conflitti, per produrre di più. Tutto ciò non aiuterà solo l’Ucraina ma anche la Nato, con la creazione di posti di lavoro di qualità”.

La ripresa economica si fa attraverso l’economia di guerra, l’Europa si sta armando fino ai denti, in tanti paesi si ricomincia a parlare della leva obbligatoria. Abbiamo una guerra in casa in Ucraina, più di un conflitto acceso nel Mediterraneo, e un genocidio in atto a Gaza.

Finora abbiamo potuto pensare che tutto sommato i prezzi da pagare fossero sopportabili, perché sotto le bombe finiscono gli altri. Ma gli esperti cominciano a litigare su quanti anni ci separino da un conflitto mondiale vero e proprio. C’è il serio rischio di finire in armi e al fronte anche noi – se continua così. Conviene cominciare a preoccuparsi sul serio.

Non è con la disperazione, è con la speranza che si cambia il mondo.

E oggi la speranza ha poche frecce al suo arco. È quasi mezzo secolo che un capitalismo globalizzato aggressivo e schiacciasassi si è lanciato alla conquista del mondo senza freni, e qui ci ha portato: nella terza guerra mondiale sempre meno a pezzetti, nel collasso climatico che avanza, nella diseguaglianza sempre più estrema, nella crisi della democrazia.

Siamo dentro a un circolo vizioso drammatico: il sistema diffonde a piene mani paura, frustrazione, insicurezza che – se non trovano una proposta alternativa convincente e credibile – finiscono col produrre consenso alla destra, alle forze e alle culture reazionarie.

E i reazionari, sempre più al potere, non risolvono la crisi. La aggravano. E ci portano dritti dentro al baratro.

L’escalation di orrore a cui stiamo assistendo dal 7 ottobre in poi è la prova di quanti danni produca la morte della politica di giustizia, l’assassinio del diritto internazionale, il silenzio, la complicità, l’ignavia della politica internazionale.

Il genocidio di Gaza è paradigma di molte cose.

Sono trent’anni che il mondo assiste senza muovere un dito alla distruzione sistematica delle speranze di pace degli anni ’90.  L’occupazione in Palestina è avanzata, Gaza è circondata e chiusa da anni in un assedio illegale, gli insediamenti hanno prodotto il risultato per cui sono stati inventati: rendere impossibile la continuità territoriale necessaria perché uno Stato possa nascere e vivere. Di fronte a tutto ciò, il mainstream europeo giustifica Israele. Sempre.

Noi europei dovremmo sempre sentire sulle nostre spalle i due grandissimi pesi che abbiamo da portare: il colonialismo e l’olocausto. Entrambi sono il prodotto del nostro suprematismo bianco e occidentale, e sono entrambi alla radice del disastro in Israele e Palestina. Abbiamo deciso di portarne solo uno e anche quello – l’olocausto – lo portiamo male.

Israele è un paese malato e dirgli sempre di sì non fa altro che aggravare la sua malattia. Lo dicono i pacifisti israeliani, coraggiosa ed eroica minoranza, quanto sia pericoloso declinare l’insicurezza in chiave securitaria, militarista, razzista.

La destra lo sta facendo, a vari gradi, in tutto il mondo. E Israele è purtroppo diventato uno specchio dove guardarci, con paura. Va fermato, non solo in nome dei diritti del popolo palestinese, ma anche per salvare Israele da sé stesso e assicurargli un futuro.

L’oppressione non produce giustizia, né in chi la compie né in chi la subisce.

Anche fra i palestinesi si è deteriorato tutto, nel popolo che era davvero il più laico e progressista del Medio Oriente. Lo vediamo anche da noi, quanto la frustrazione sociale e politica spinga alla disgregazione e verso la radicalizzazione. Figuriamoci lì.

È tragico che in Palestina tanti pensino che è solo grazie al 7 ottobre che si torni a parlare dei diritti del popolo palestinese. È pericoloso che una nuova generazione cresca pensando che la forza sia l’unica cosa utile per ottenere risultati.

Senza una speranza di giustizia questo è il risultato, nell’occupante e nell’occupato. E c’è voluto un Tribunale per dire quello che la politica non ha il coraggio di dire e di fare.

La Corte Internazionale di Giustizia, che è il tribunale dell’Onu, ha messo sotto inchiesta Israele per genocidio. Ci vorranno anni per la sentenza, ma Israele è alla sbarra degli imputati. La deliberazione della Corte, che ha ritenuto l’accusa di genocidio plausibile, è una luce nel buio: chi commette sterminio, non può rimanere impunito.

Ma quando è la magistratura a dover surrogare una politica di giustizia, vuol dire che una politica di giustizia è latitante.

Sono anni che in Europa una politica estera autonoma è scomparsa dai radar.

La politica estera dell’Europa è stata rimpiazzata dalla politica della Nato. E la Nato ha annunciato ufficialmente più volte nel tempo i suoi mutamenti strategici. Nel disinteresse generale, ha deciso il nostro destino.

Dopo la caduta del Muro di Berlino, prima si è lanciata alla conquista militare dell’Est Europeo. Poi ha individuato la Russia come nemico. E ora nemica è diventata anche la Cina – trasformando l’Indo-pacifico nel probabile scenario della conflagrazione prossima.

Nell’Est Europa, il risultato sono centinaia di migliaia morti ucraini e russi, l’Ucraina invasa e per un terzo completamente distrutta, una guerra di cui non si vede la fine.

I leader europei di un tempo, prima ancora che cadesse il Muro, ragionavano di come integrare la Russia in un sistema europeo di sicurezza comune e interdipendente, per favorire la democratizzazione ed evitare di trovarsi con un vicino frustrato e con le spalle al muro – perché non c’è niente di più pericoloso.

Era un progetto che necessitava di investire tanto e bene sulle zone di intersezione geografica, linguistica, culturale come l’Ucraina. La Nato ha fatto il contrario, facendo avanzare la frontiera armata ad est. E ha favorito così la vittoria in Russia delle spinte militariste e del panslavismo aggressivo.

Nel Mediterraneo, dalla politica di Partenariato Euro-Mediterraneo di Barcellona del 1995, che prevedeva un’area di cooperazione politica ed economica comune, si è passati alla Nuova Politica di Vicinato che dal 2004 al suo centro ha solo la lotta al terrorismo e il blocco dei migranti.

Le rivoluzioni arabe democratiche non sono state sostenute: i nuovi governi democratici chiedevano la cancellazione del debito ingiusto prodotto dalle ruberie dei dittatori, l’Unione Europea ha risposto imponendo trattati di libero scambio rafforzato che distruggono l’economia locale. E anche l’ultimo baluardo democratico, in Tunisia, è crollato.

Il neo-colonialismo impera, nelle sue diverse forme: teso a garantire interessi geo-politici, mirato alla conquista di fonti fossili e di terre rare, o finalizzato all’esternalizzazione delle frontiere contro i migranti. Il Piano Mattei del governo Meloni è uno dei suoi esempi più lampanti.

L’Europa era una stella polare per il sud del mondo fino a qualche decennio fa. Nonostante l’orrendo passato coloniale, il nostro compromesso sociale avanzato fra capitale e lavoro, il welfare e la sinistra facevano scuola, fra le forze democratiche del Sud globale. Non siamo più il riferimento di nessuno, e la nostra crisi nutre il potere dei regimi regionali come Egitto e Turchia.

Intanto ci armiamo. Con impegno e convinzione.

Negli ultimi dieci anni, le spese militari dei Paesi UE della NATO sono aumentate di quasi il cinquanta per cento. In un decennio, la Germania ha aumentato la sua spesa militare reale del 42%, l’Italia del 30%, la Spagna del 50%. E l’Europa ha iniziato a finanziare direttamente il riarmo.

Nel 2024, l’Italia spenderà in armamenti 28,1 miliardi di euro con un aumento di oltre 1400 milioni rispetto al 2023: una crescita percentuale del 5,5% rispetto all’anno precedente.

Senza mandato dell’ONU e senza voto parlamentare abbiamo preso il comando tattico della missione ASPIDES nel Mar Rosso contro le azioni degli Houti yemeniti. È una missione potenzialmente offensiva, con regole di ingaggio fumose, che ci rende attori attivi del conflitto in Medio Oriente. Intanto, il governo Meloni ha annunciato a Tokio l’invio di portaerei e F35 nell’Indo-Pacifico.

Un disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri ha poi modificato le norme per le missioni militari all’estero, per accelerare i tempi della loro approvazione e per evitare il voto in Parlamento.

Il Senato ha approvato la modifica alla legge sul commercio delle armi rendendo più semplice l’import/export, rendendo meno trasparenti i dati: un favore ai produttori e ai mercanti di armi, e alle banche armate.

L’Europa sta andando alla guerra.

E noi, non abbiamo altra scelta che organizzarsi per fermarla. Non bastano solo i pacifisti e le pacifiste. Servono tutti e tutte. Per salvare Gaza, per fermare tutte le guerre, per salvarci.

 

Foto: “Picasso – «Guernica»” di magal (Manuel Galrinho)CC BY-NC-ND 2.0)

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 52 di Febbraio-Marzo 2024: “Europa: a che punto è la notte?

Se sei arrivato fin qui, vuol dire che ti interessa ciò che Attac Italia propone. La nostra associazione è totalmente autofinanziata e si basa sulle energie volontarie delle attiviste e degli attivisti. Puoi sostenerci aderendo online e cliccando qui . Un tuo click ci permetterà di continuare la nostra attività. Grazie"