L’accanimento. I valori perduti dell’Europa

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di Maurizio Veglio (estratto dal libro “Respinti” di Duccio Facchini e Luca Rondi, Altreconomia Edizioni)

C’è una parola capace di descrivere la barbarie che infesta l’Europa dei diritti, lungo i confini fino al suo cuore, e che colpisce i migranti con sistematica ferocia: questa parola è accanimento. Il suo manifesto è un documento passato quasi sotto silenzio, una lettera di tre paginette, con cui il 17 ottobre 2021 i ministri dell’Interno di dodici Paesi membri dell’Unione europea hanno denunciato un “attacco ibrido teso a destabilizzare l’Europa attraverso la strumentalizzazione dell’immigrazione illegale”. Il riferimento era alla scellerata iniziativa del governo bielorusso di sponsorizzare l’illusoria emigrazione verso l’Unione europea di decine di migliaia di persone, per ricattare Bruxelles à la Gheddafi o Erdogan.

La reazione dei ministri Ue, revisionisti dei “valori europei”, sancisce il degrado di questo tempo: non la condanna per lo sfruttamento e gli stenti di quanti avevano raggiunto il confine tra Bielorussia e Polonia, ma la denuncia di una ennesima minaccia migratoria, 15mila profughi armati di zaini e coperte che mettono in scacco 500 milioni di europei, la gran parte dei quali benestanti. Siamo a un passo dalle allucinazioni sovraniste della sostituzione etnico-demografico-religiosa, ma tanto è bastato perché i governi di Austria, Bulgaria, Cipro, Danimarca, Estonia, Grecia, Lituania, Lettonia, Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca e Ungheria invocassero la caduta dell’ultimo tabù: l’erezione di una barriera fisica lungo i confini esterni dell’Ue.

Analogo lessico da guerra civile è risuonato più volte nella politica italiana, compresa l’invocazione di un blocco navale (armi incluse!) contro le imbarcazioni in arrivo dalla costa meridionale del Mediterraneo.

Nel 2017 lo sbarco di 12mila migranti in 36 ore – fatto di rilievo, ma non certo assimilabile alla guerra fredda, al buio degli anni di piombo, allo stragismo mafioso o a Tangentopoli – fa gridare alla “minaccia alla tenuta democratica dell’Italia”. Le parole sconcertanti provenivano dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, regista dell’accordo con la Libia e al tempo campione nel gradimento dell’opinione pubblica.

Eppure la strategia della paura si scioglie come neve al sole dell’evidenza: l’Italia non è un Paese di immigrazione. Gli stranieri immigrati sono meno di 6 milioni, circa il 9% della popolazione residente, una quota più bassa di quelle di molti Paesi dell’Europa continentale e ormai stabilizzatasi da 3 anni. È una cifra appena superiore al numero degli italiani residenti all’estero (5 milioni e mezzo iscritti all’Aire), a ricordare che l’Italia è stato in primo luogo un formidabile Paese di emigrazione, con quasi 30 milioni di persone partite dall’unità ad oggi.

Un ulteriore silenzioso movimento ha interessato l’Italia nell’ultimo decennio, quello del transito. I numeri sono eloquenti: il 1 gennaio 2017 metà delle persone arrivate nel 2012 non si trovava più nel Paese, mentre prima della chiusura delle frontiere e dell’introduzione degli hotspot – che hanno sigillato l’ingresso e l’uscita dal territorio nazionale – circa il 60% di coloro che sono sbarcati in Italia ha proseguito verso Nord.

Chi ha denaro, mezzi e conoscenze attraversa i confini, chi non li ha si mette in coda a Ventimiglia, a Bardonecchia, a Como, sul Brennero. Molti sono richiedenti asilo, gli ultimi della fila, che preferiscono rischiare le botte, il freddo e la morte piuttosto che rimanere. Ma sotto la pressione degli Stati membri dell’Ue, in particolare Centro e Nord-europei, la scadente macchina delle espulsioni italiana si è fatta via via più brutale, ampliando i propri strumenti: luoghi neutri presso porti e aeroporti, hotspot nelle zone di sbarco, trattenimenti informali lungo le frontiere terrestri, nuovi centri di permanenza per i rimpatri. A moltiplicarsi non è stato però il numero dei rimpatri, ma la sofferenza di quanti finiscono in questo tritacarne.

L’ultimo ventennio ha visto nascere e proliferare luoghi di detenzione amministrativa per stranieri, cioè carceri senza un reato, in tutta l’Unione europea. Una prima ragione, comune a vari Stati membri, risiede nel disinteresse pubblico per il rispetto dei diritti fondamentali degli stranieri: la detenzione amministrativa dei cittadini dei Paesi terzi non ha mai conquistato i titoli dei media e non è mai stata oggetto di un serio dibattito pubblico. L’incapacità di leggere nell’immigrazione un fenomeno storico, sociale e strutturale ha spinto la politica alla ricerca di un facile consenso al ribasso (tipicamente, l’aumento delle espulsioni) invece di elaborare proposte responsabili e mature. Il sistema del trattenimento è stato così strumentalizzato e consegnato alla propaganda: prova ne è la continua riscrittura della norma che disciplina i centri di permanenza per i rimpatri in Italia, ritoccata 14 volte in 24 anni, senza peraltro alcun incremento del tasso di espulsioni. La possibilità del rimpatrio è legata a doppio filo ai rapporti diplomatici tra l’Italia e i Paesi di origine, la cui collaborazione per identificare e riammettere i propri cittadini è imprescindibile. Non a caso, sin dall’istituzione dei centri di permanenza in Italia la quota di persone rimpatriate sul totale dei trattenuti si è assestata intorno al 50%, indipendentemente dalla durata massima del trattenimento. Ma anche a fronte della fredda evidenza statistica, la miopia delle istituzioni nega lo spazio per un ripensamento del sistema delle espulsioni, che andrebbe ridimensionato e armonizzato con il rispetto dei diritti fondamentali.

Un secondo aspetto, proprio in tema di tutela individuale, è invece peculiare della realtà italiana: la previsione di un sistema giurisdizionale minore, quando non del tutto inesistente, a garanzia degli stranieri soggetti alla detenzione amministrativa. Per la restrizione in frontiera (porti, aeroporti e “luoghi idonei”, secondo l’amletica formulazione normativa) non è prevista alcuna convalida giudiziaria e nemmeno per quelle migliaia di persone l’anno, almeno fino alla pandemia, che vengono rinchiuse in un hotspot, curioso enigma giuridico in cui gli stranieri non sono detenuti, secondo la pubblica amministrazione, ma non possono allontanarsi fino a quando non “consegnano” le proprie impronte digitali. Analoga sorte tocca a quanti vengono confinati sulle cd. navi quarantena, in assenza di un provvedimento individuale dell’autorità sanitaria o giudiziaria, per non parlare delle riammissioni informali, o meglio respingimenti illegittimi, dal Friuli in Slovenia, ennesima stazione della via crucis che ricaccia le persone fino in Bosnia, ai margini dell’Europa illuminista.

La costruzione giuridica più singolare, che testimonia la volontà punitiva del sistema, è però quella prevista per il trattenimento degli stranieri in un centro di permanenza per i rimpatri. In quello che dovrebbe essere l’ultimo anello prima del rimpatrio, e che invece spesso si trasforma in un luogo di pura afflizione, il controllo di legittimità è affidato a un giudice debole, il giudice di pace. Si tratta di un unicum giuridico, un autentico monstrum, visto che le decisioni sulla libertà individuale, bene supremo dell’essere umano, sono sempre riservate al giudice ordinario, garante dei diritti soggettivi. Allo straniero, invece – ed esclusivamente a lui – è assegnato un giudice minore, debole non solo per la sua collocazione gerarchica, trattandosi di un magistrato onorario e non professionale, ma anche per la tendenza a non esercitare un controllo autorevole sull’operato della pubblica amministrazione. I dati dimostrano che raramente i giudici di pace respingono le richieste di convalida o proroga del trattenimento avanzate dalle questure, rinunciando di fatto all’esercizio di una giurisdizione delicatissima, perché relativa alla libertà personale. Se a questo si aggiunge l’impossibilità di appellare le decisioni dei giudici di pace – unicamente ricorribili per Cassazione, con tempi medi di attesa non inferiori all’anno – si comprende perché in Italia il trattenimento è uno strumento di fatto consegnato agli apparati di pubblica sicurezza, lesivo dei diritti primari della persona, nella sostanziale indifferenza collettiva.

È stata infine la pandemia ad offrire uno sguardo definitivo sulla funzione del trattenimento, svelandone le residue ipocrisie. Non uno strumento di rimpatrio, evento statisticamente marginale, ma un arnese qualificato della comunicazione politica, rivolta tanto all’opinione pubblica quanto ai partners a Bruxelles. […]

Eppure, per quanto pubblica e profondamente politica, la restrizione degli stranieri è un tema che non riesce a imporsi all’attenzione generale né a superare i confini di un dramma privato. Perché l’esperienza della detenzione amministrativa rimane un evento a sé, incapace di farsi raccontare, ascoltare e giudicare pubblicamente? Avanzo un’ipotesi: il trattenimento è un’esperienza eccezionale e in-tra-du-ci-bi-le. Non credo cioè che se ne possano condividere né raccontare, tra persone e lingue diverse, le implicazioni più profonde. E questo per diverse ragioni: la prima è il disorientamento che accompagna l’ingresso in un carcere senza reato. Perdere la libertà perché irregolari o richiedenti asilo è un’esperienza incomprensibile per molti immigrati, e pressoché sconosciuta per i cittadini dei Paesi occidentali in cui è diffusa. I riferimenti storico-culturali – i lager, i campi di raccolta, di concentramento o di deportazione – condividono un originario calco-madre, ma non consentono di coglierne la modernità.

Aggiungo inoltre la dimensione linguistica, cioè culturale (“La lingua è più del sangue”, ha scritto Franz Rosenzweig): un centro di trattenimento è una Babele di azioni e pensieri che richiede un rovesciamento di prospettiva, e cioè testimoni in grado di comprendere le parole dei trattenuti. Ogni traduzione, secondo una convinzione comune, è per definizione difettosa. Non è un caso se una delle poche voci che è riuscita a infrangere, e fragorosamente, le sbarre dell’indifferenza, quella dell’autore curdo-iraniano Behrouz Boochani, ha raggiunto il pubblico travestita nelle lingue dei suoi persecutori. Dapprima il farsi, lingua ufficiale dell’Iran, in cui Boochani ha scritto i messaggi di testo clandestini confluiti nel potente volume “Nessun amico se non le montagne”; e quindi l’inglese, lingua di traduzione del libro nonché del secondo inaspettato persecutore, l’Australia, che lo ha ingabbiato in un centro di trattenimento per oltre sei anni per avere chiesto asilo.

Superare l’intraducibile richiede un’enorme sforzo collettivo. Non una speranza educata e astratta, ma l’autentico desiderio dell’incontro e della costruzione di un vocabolario comune, perché “le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico”: il veleno della segregazione etnica.

Foto: “4/10_09_2017 Refugiados atrapados en Ventimiglia_PedroMata (18)” di Fotomovimiento (CC BY-NC-ND 2.0).

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 50 di Giugno-Luglio 2022: “Guerra e migranti, guerra ai migranti

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