La rivoluzione ecologica

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 di Alice Dal Gobbo (Università di Trento)

L’ecologia sta diventando un nodo centrale di dibattito pubblico, anche se in Italia trova minor spazio rispetto ad altri paesi. Con la crisi climatica in particolare, i mutamenti ambientali indotti dall’attività umana sul pianeta sono stati portati all’attenzione di coloro che governano e dei cittadini. Spesso però passa in secondo piano che parlare di ecologia non significa solo parlare di una “transizione sostenibile”, ma anche di una nuova società – dal momento che quella attuale si dimostra sempre più incapace di affrontare questa crisi, inventare o adottare soluzioni, organizzare risposte e riparazioni.

L’approccio dell’ecologia politica suggerisce che i rapporti tra esseri umani e biosfera sono sempre mediati, o meglio costruiti, da relazioni sociali e di (ri)produzione storicamente determinate. Vede quindi la crisi in modo sistemico, ne individua gli elementi unificanti e fondanti: essa non è accidentale o riconducibile a fattori isolati ma una crisi del sistema capitalista. Al contempo, nel momento in cui politicizza le risposte, l’ecologia politica apre il campo del possibile: una società diversa è la società che vogliamo, ma il desiderio è sempre plurale.

Questo approccio problematizza i modi ufficiali di costruire i problemi ambientali. In quanto segue si dà un’idea di questa dialettica e su tale base si propongono alcuni temi, processi, pratiche trasformative.

  1. La crisi accettabile

I discorsi ufficiali seguono a grandi linee la retorica dell’Antropocene: l’Uomo sta avendo impatti significativi e potenzialmente devastanti sul pianeta, si dimostra forza naturale in grado di alterare ecosistemi, ma ciò dimostra anche il suo potere di controllare se stesso e il mondo. La risposta preferita alla crisi nell’Antropocene, quindi, è più Antropocene. Lo sviluppo sostenibile e il capitalismo verde sono rettifiche alla rotta intrapresa con il capitalismo industriale, con interventi di mercato (per es. carbon market) o tecnoscientifici (geoingegneria) o “grandi opere”. Tutti si strutturano secondo la stessa logica: più intervento, più azione, più sviluppo, più economia, più mercificazione ci salveranno dalla catastrofe ambientale. È come cercare di curare un male fornendo come medicina ciò che l’ha provocato. Spesso si interpellano anche i cittadini perché adottino comportamenti ecologicamente virtuosi (usare meno plastica, comprare cibo locale, diminuire l’uso della macchina e dell’aereo, ecc.), implicando che individui isolati possano avere controllo razionale e calcolato sulle proprie azioni e così fare una differenza.

Questo discorso si basa su continue separazioni (per es. Uomo|Natura, individuo|società, ragione|corpo) che illudono sia possibile isolare gli esseri umani dal resto della biosfera e quest’ultima in elementi astratti gestibili attraverso la scienza e la tecnica. Spesso l’emergenza ambientale viene mobilitata come fine a se stessa e le vie per arrivare ad una soluzione sono date come univoche e incontestabili in quanto scientificamente fondate; così si alimenta il governo tecnocratico del “rischio”. In questo modo la crisi ecologica diventa accettabile poiché non scalfisce alla radice il presente assetto socio-ecologico, politico, economico.

  1. La crisi inaccettabile

Si dà tuttavia il caso che queste risposte non funzionino, mentre l’avanzare dei processi di accumulazione capitalisti trascina nella propria catastrofe sempre più parti di mondo. L’ “Antropocene” e il suo bagaglio di distruzione ecologica non sono frutto né di una universale “razza umana” né dei singoli. Sono espressione di uno specifico modo di produzione: il complesso della modernità capitalista, eurocentrica, antropocentrica e patriarcale [1].

La crisi che viviamo ci dice che il tentativo capitalista di modellare le ecologie planetarie – umane e non – e piegarle nel loro funzionamento a imperativi di profitto a loro estranee non funziona più: è fallito. Le sue sfaccettate dis-funzioni sono intrecciate: le crisi economiche e soprattutto finanziarie sono legate a dinamiche di valorizzazione perverse che “pescano” in una biosfera a loro irriducibile e nella ricchezza sociale che viene man mano prosciugata; ciò si esplica a livello soggettivo in crisi del desiderio, frustrazione verso un sistema che non offre più quello che promette. Crescita economica non equivale a maggiore “ricchezza” nel senso di felicità e benessere: le due cominciano a confliggere per umani e non umani (per esempio, lo “sviluppo” in agricoltura industriale determina a lungo termine una sterilizzazione dei terreni, una diminuzione della loro capacità di creare).

Una risposta alla crisi non può essere basata sull’astrazione dell’essere umano dal resto della natura al fine di gestirla. Né potrà essere fatta di individui disciplinati che scelgono comportamenti virtuosi all’interno dello spazio di scelta esistente. Le risposte non politiche alla crisi riproducono questa logica e il regime socio-ecologico che genera, si danno come dispositivi di disciplina e amplificazione di diseguaglianze e violenze sistemiche, nonché di ulteriore strumentalizzazione della vita.

  1. Delineare alternative

La formula marxiana che definisce il capitalismo, D-M-D’, ci ricorda che il nostro sistema economico non è finalizzato alla produzione e allo scambio di merci per il soddisfacimento di bisogni locali e finiti (per quanto storicamente e socialmente determinati). Il fine dell’espansione è esterno ai bisogni stessi, alla vita, all’esperienza e agli interessi dei soggetti coinvolti: è l’infinito accrescimento dell’universale astratto per eccellenza, il denaro. In certe circostanze ed epoche storiche questa logica ha determinato un effetto “progressivo” di miglioramento delle condizioni di esistenza. Però il mondo tutto, la vita e le sue capacità creative (il vivente) sono state reificate e mercificate. Oggi, infine, è decaduta l’utopia di una espansione “buona” del capitale: il neoliberalismo produce forme sempre più violente di estrazione di valore, espropriazione, devastazione ecologica, diseguaglianze sociali.

La possibilità di uscita da questo sistema inizia quando nature (umane e non) si ribellano alla rigida imposizione della logica univoca del capitale. È su questa linea di conflitto, tra il capitalismo e il vivente, tra necessità astratte dell’economia e istanze della vita, che è utile muoversi per fare in modo che le nostre risposte siano al contempo ecologicamente sensibili ed emancipatorie. I due aspetti sono interdipendenti: parlare di ecologia è un modo di parlare di una società futura in cui al centro possa tornare l’affermazione della libertà di espressione della vita.

I principali movimenti del presente (soprattutto quelli che si articolano attorno all’ecologia, ma anche quelli femministi o legati all’ambientalismo della vita quotidiana), sembrano esprimere questo nodo di conflitto in modi anche molto originali. Per esempio, chi lotta contro le grandi opere prende coscienza della loro distruttività nei confronti sia di un territorio comune e significativo sia delle comunità che lo abitano. Comincia ad articolarsi un senso di alleanza-interdipendenza con il resto della natura contraria alla retorica maggioritaria secondo cui felicità e libertà sono realizzabili attraverso separazione ed emancipazione dell’essere umano rispetto alla natura. È quasi come se una nuova frattura “di classe” emergesse, in cui però il soggetto rivoluzionario non fosse più solo un gruppo umano, ma comunità più-che-umane che si ribellano contro le imposizioni del capitale. Similmente, nelle lotte femministe e per la riproduzione si domanda di ricomporre la frattura tra produzione e riproduzione, e soprattutto di eliminarne la relazione gerarchica. “Donna” e “natura” divengono qui alleate: soggetti minoritari in un mondo che privilegia la produzione di merci, e che tuttavia reclamano la propria non-sacrificabilità, un valore altro rispetto a quello del mercato.

Queste alleanze mettono in crisi il paradigma dell’Antropocene perché non scindono umani e non-umani e non vedono emancipazione degli uni senza gli altri. La responsabilità non è più dell’“io” separato dalle relazioni sociali ed ecologiche; non c’è una natura da salvare ma ci sono comuni interessi di vita da difendere, salvaguardare e far fiorire. La rivoluzione ecologica allora parte tra le altre cose da una connessione con l’ambiente prossimo fatta anche di desiderio, per sospendere la tensione separatrice e produttivista e domandare: che cos’è una buona vita? come si articola dentro e non contro i limiti ecologici? che cos’è una libertà senza sopraffazione? Le risposte a queste domande non possono che essere situate, politiche, co-costruite – quindi aperte alla mediazione, alla trasformazione e alla convivenza.

 

[1] Anche se parte delle caratteristiche e premesse di questo sistema di dominio si danno anche nei sistemi precedenti alla nascita del capitalismo, la loro intensificazione ed espansione a livello planetario corrisponde al suo sviluppo.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 41 di Settembre – Ottobre 2019. “La società che vogliamo

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