La guerra contro la transizione ecologica

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di Emanuele Genovese  (Fridays For Future)

Dopo quattro anni dall’annuncio del poco ambizioso Green Deal europeo la situazione delle politiche climatiche appare estremamente compromessa: i conflitti e le ipocrisie europee sono state rese evidenti ed esplicite dalle guerre, situazione che ormai molti definiscono una “Terza guerra mondiale a pezzi”.

Gli elementi su cui si reggeva l’Unione europea (Ue), ovvero le forniture di gas dalla Russia e dal nord Africa e la difesa degli Stati Uniti, sono stati proprio gli elementi fondanti dell’attuale instabilità planetaria di cui stanno beneficiando le lobby a più alte emissioni e le élite di alcune nazioni che causano devastazione e aree di sacrificio in tutto il mondo.

Ogni obiettivo climatico e sociale sembra essere diventato quindi velleitario di fronte alla sovrapposizione di interessi incrociati che prevalgono su qualunque discorso sul benessere collettivo. Prova ne è lo spostamento di fondi pensati come sostenibili in fondi bellici.

Il complesso dell’economia fossile e di quella bellica si saldano ancora una volta, sclerotizzando la vecchia economia ed esasperando una paura e un disorientamento diffusi.

Tutto questo mentre si prepara l’anno con più elezioni della storia e il probabile maggior numero di governi conservatori mai presenti di sempre.

Questa saldatura è riscontrabile anche nella protezione militare data ai progetti fossili, quasi sempre indicati come di interesse strategico dagli Stati legati alle multinazionali, con il risultato che le pianificazioni nazionali sono opera e ostaggio dell’estrattivismo delle stesse multinazionali.

Ad aggravare le disuguaglianze su varie direttrici si aggiungono poi il ritorno dell’austerità, sia in Europa, con la non revisione del Patto di stabilità, sia nel resto del mondo tramite il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale (Bm), che confermano i vincoli originati dagli aggiustamenti strutturali, ma anche le guerre commerciali e il pervasivo e costante disequilibrio derivante dalla dipendenza mondiale dal dollaro.

Ancora una volta i debiti generati vengono utilizzati per ottenere materie prime, anche fossili, praticamente gratuitamente e per imporre economie orientate all’esportazione ai Paesi del Sud del mondo.

In momenti come questi è chiaro che gli appelli alla pace possano solo scadere in pacificazioni asimmetriche mentre ciò di cui ci sarebbe bisogno e che viene rivendicato dai Movimenti sociali è un moto di resistenza, una presa di posizione che guardi ai conflitti in maniera non neutrale.

Si cerca non la pace, ma l’emancipazione collettiva.

Che la guerra fosse il tabù anche in campo climatico è d’altronde evidente: anche per le Nazioni Unite (Onu) riportare le emissioni dell’industria bellica non è un obbligo, ma una scelta volontaria. Tuttavia le stime disponibili ci dicono che in tempi di pace, che sappiamo essere sempre pace relativa, le emissioni belliche arrivano al 5% delle emissioni globali (https://ceobs.org/estimating-the-militarys-global-greenhouse-gas-emissions/), equiparabili alle emissioni di una virtuale quarta potenza mondiale.

L’economia di guerra mostra i suoi impatti anche su ambiti come quello della formazione, motivo per cui la Campagna End Fossil ha chiesto la fine degli accordi delle Università con tutte le aziende ecocide.

È noto quali gruppi hanno piani strategici contro l’umanità, che siano di aziende fossili, belliche o di gruppi finanziari, dei quali, incredibilmente, vengono proposte argomentazioni di ogni sorta in loro difesa.

Rimanendo, ad esempio, al campo militare spesso si sostiene che degli investimenti in questo settore beneficino poi anche i settori civili, avallando perciò anche la ricerca sulle tecnologie dual use. Esempio prediletto di questa argomentazione è la creazione della rete internet, tuttavia, così si omette la privatizzazione della ricerca fatta con fondi pubblici che era stata cooptata, più che sviluppata o facilitata, dai militari.

C’è chi, stando in questo campo semantico, ha parlato di diserzione, risposta che appare insufficiente. Non sappiamo quale forma precisa possa prendere, ma è evidente come qualunque pratica, reale o virtuale, dei movimenti sociali debba avere l’obiettivo di generare comunità attive e partecipate.

Siano pratiche vecchie o nuove non è possibile esimersi da un richiamo generale a un principio di responsabilità dallo sguardo internazionalista: costituire comunità energetiche cercando una democratizzazione dell’energia, chiedere un intervento pubblico per riconvertire le parti dannose della nostra economia con processi pubblico-comunitari, chiedere una redistribuzione del lavoro, l’abolizione del debito per i Paesi del Sud del mondo e molto altro ancora.

Tutte queste istanze sono parte di una resistenza collettiva che sarà tale quando si riconoscerà in tutte le sue parti e quando la capacità di organizzazione collettiva, decentralizzata o meno, sarà sufficiente.

Immagini:

1)  “Effetto serra, effetto guerra” Manifestazione dei Fridays for Future Torino del 25 marzo 2022 – pagina facebook di Fridays for Future Torino 

2) “Estimating the military’s global greenhouse gas emissions” di Conflict and Environment Observatory

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 53 di Maggio – Giugno 2024: “Chi fa la guerra non va lasciato in pace

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