La cura siamo noi

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“braccianti-raccolta-pomodori” by Radio Alfa is licensed under CC BY-NC-SA 2.0

di Alberto Zoratti (Fairwatch)

“Laddove ci sono settori in grossa sofferenza o chiusi per disposizione del governo, lì ci sia la cassa Covid gratuita e il blocco dei licenziamenti. Nei settori che avranno una ripresa, diciamo invece, dateci la possibilità di liberare”: Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, chiarisce una volta per tutte la posizione dell’organizzazione datoriale italiana. La ripresa deve passare necessariamente dal “liberi tutti”, cioè liberarsi di zavorre e orpelli che possono rallentare il grande rilancio dell’industria italiana: pesi che però hanno nomi, cognomi, famiglie alle spalle. Esperienze e storie umane che sono state, finora, protette dal blocco dei licenziamenti che, almeno ancora per qualche mese, eviterà un disastro sociale senza precedenti. Aggravando quei dati e quelle statistiche ISTAT che mostravano come il lavoro dipendente fosse rimasto l’ultimo baluardo contro gli effetti della crisi, grazie alle misure di contenimento che evitavano l’espulsione dal lavoro di migliaia di persone.

Ma appena al di fuori dei confini del tutelato, gli effetti della pandemia sono a dir poco devastanti: da febbraio 2020, inizio della diffusione del COVID19, sono stati persi oltre 426mila posti di lavoro. Le fasce sociali più colpite sono state quelle con un’età compresa tra i 25 e i 49 anni, per la stragrande maggioranza donne e i lavoratori e le lavoratrici a tempo determinato, incluse le partite IVA. Insomma, il precariato in generale. Nel solo mese di dicembre 2021 sono scomparsi 101mila posti di lavoro, di cui 99mila erano occupati da donne, per la stragrande maggioranza giovani o comunque al di sotto dei 50 anni. In un anno, cioè dal dicembre 2019, il crollo dell’occupazione di 444mila unità ha visto l’uscita dal lavoro di 312mila donne.

Gli effetti della pandemia hanno, di fatto, reso evidenti le fratture sociali che per troppi anni sono state lasciate sotto il tappeto: un mondo del lavoro frammentato, con decine di tipologie di contratto soprattutto precario, ancora fortemente patriarcale, non più in grado di opporsi in maniera efficace agli interessi delle imprese, che mai hanno dimenticato di essere classe sociale, indipendentemente dai propri obiettivi economici. Questa è una delle sfide di una Società che si definisce “Società della Cura”: assumere la complessità del momento presente e creare le nuove connessioni, i collegamenti e le convergenze necessarie. Oggi la crisi sociale e economica ha i volti delle donne espulse dal mercato, dei giovani che per oltre il 30% devono affrontare la disoccupazione giovanile (Italia ultima in Europa), dei lavoratori e delle lavoratrici migranti che raccolgono prodotti agricoli nei campi sotto caporalato, o che attendono l’ordine di una qualsiasi azienda del food-delivery, seduti sulla loro bicicletta indipendentemente dalle condizioni meteorologiche e per pochi euro a consegna.

Cura è trasversalità: tutto si tiene, nulla può essere ignorato, vanno considerate tutte le connessioni tra diritti, ambiente, se vogliamo dare risposte politicamente rilevanti e sistemiche e non semplici palliativi. Quello che ci si prospetta davanti è un momento di crisi pesante, ma anche una finestra di opportunità: questo sistema economico non cambia se non si comincia nuovamente a praticare il conflitto, se non si mettono in discussione le basi fondanti della nostra società.  Questo può avvenire all’interno di processi fluidi, dove ognuno e ognuna possa sentirsi libero di portare la propria visione e la propria esperienza politica. Obiettivo non è costituire un soggetto politico organizzato, ma convergere sugli obiettivi che uniscono, lavorando su quelli su cui ancora non c’è convergenza. In questo i territori giocano un ruolo sostanziale, perché sono i luoghi dove gli effetti della globalizzazione e delle ristrutturazioni aziendali colpiscono in modo pesante. Ritrovare una partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori vuole dire spingere sulla democrazia nei posti di lavoro, sotto forma di Consigli che possano ricreare quegli spazi di decisione e di proposta politica che uniscono le vertenze sotto un’unica cornice. Ma, anche, mobilitarsi per l’aumento delle tutele proprio davanti a un ulteriore peggioramento della crisi, a cominciare dalla proroga del blocco dei licenziamenti, da una profonda riforma delle tipologie contrattuali e dalla decisa diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Ma queste possono essere al più misure temporanee, perché va ripensato profondamente l’impianto generale dell’economia italiana: una società capace di futuro e di cura deve per forza rivedere il suo modello produttivo, abbandonando quelle filiere industriali ad alto impatto sociale e ambientale (a cominciare dalle armi e da quelle estrattive), per investire decisamente su filiere ad alto valore aggiunto sociale e ambientale, e garantendo investimenti pubblici in grado di affrontare, in modo efficace e definitivo, il tema della lotta al cambiamento climatico e al dissesto idrogeologico.

Al pensiero unico dominante è necessario opporre una visione multidimensionale, dal locale al globale, che dia forza al tempo riproduttivo in tutte le sue forme rispetto a quello produttivo, che andrebbe ridotto e circoscritto all’essenziale. L’opportunità del Next Generation EU, il commissariamento del nostro Paese con Mario Draghi e le possibili grandi intese, le fratture sempre più evidenti nella nostra società chiedono un balzo in avanti deciso: focalizzare sulle priorità, condividere gli obiettivi, definire un’agenda di mobilitazioni. Ci sono occasioni importanti: dall’8 marzo, giornata di lotta oramai ineludibile, alle iniziative dei Fridays for Future degli altri movimenti ecologisti fino all’opposizione all’agenda del G20 e al ventennale del G8 genovese.

Per questo il percorso della convergenza diventa politicamente sostanziale: i movimenti e le organizzazioni per i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori possono dialogare con le realtà ecologiste, con i comitati di difesa del territorio, con le lotte femministe, costruendo un tessuto connettivo capace di complessità e mobilitazione. Da questa crisi si esce soltanto tutte e tutti assieme, con una netta discontinuità da un passato non sostenibile né tanto meno socialmente accettabile.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 45 di marzo-aprile 2021:  “Recovery PlanET: per la società della cura

 

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