La Chiesa contro la guerra? La convivenza tra Bomba e Ragione non è più possibile.

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di Silvio Piccoli e Antonio De Lellis 

Il principio morale di bandire la guerra dal consorzio umano era già stato fatto proprio dal magistero dai Papi: basti pensare al radiomessaggio natalizio del 1944 di Pio XII.  Questa dottrina prevedeva in ogni caso la guerra di legittima difesa e quella vendicativa, volta cioè a ristabilire il diritto violato.

Tali posizioni dei Papi sulla guerra, si trasformano con la Pacem in Terris del 1963: sempre soluzione ingiusta e ingiustificabile. La Pacem in Terris di papa Giovanni XXIII si allontana dalla prospettiva della guerra giusta, grazie all’utilizzo, nella lettura dei fatti a uno schema deduttivo, affermando che la guerra contemporanea non può in nessun caso produrre giustizia e argomenta tale posizione applicando non una categoria della teologia morale, ma semplicemente leggendo e interpretando, con metodo induttivo, i segni dei tempi, cioè i fatti storici; pertanto la semplice constatazione del grave pericolo di una guerra atomica rendeva inutilizzabile l’arsenale interpretativo della morale classica in tema di guerra giusta.

Chi ha vissuto in simbiosi temporale la promulgazione della Pacem in Terris porta con sé l’emozione di quella stagione: finalmente un’enciclica che parlava di pace e dava pace a chi la leggeva, un manifesto di speranza per l’umanità intera. L’enciclica segnava anche un’apertura della Chiesa sul mondo intero: si afferma esplicitamente che nel mondo vi sono uomini di buona volontà, cristiani e non, credenti e atei capaci di ascoltare la voce della Chiesa; di una Chiesa che non dice innanzitutto “convertitevi alla mia fede” ma dice invece “lavoriamo insieme per un traguardo che tutti voi potete condividere”. Questo approccio sosterrà la teologia della Gaudium et Spes del Vaticano II: la Chiesa offre la sua collaborazione e la sua fraternità per un cammino comune senza esigere conversione o vie di Damasco. Di fronte alla realtà odierna, anche tragica, nella famiglia umana si riscontra un’aspirazione alla pace, alla giustizia, alla libertà, alla verità e la Chiesa è solidale con chiunque senta l’urgenza di rispondere a tali aspirazioni.

Le sfide ancora inadempiute che l’enciclica rimette alla nostra responsabilità storica.

  1. Innanzitutto quella del governo della mondializzazione. Una delle innovazioni fondamentali del documento è la codificazione del genere umano come soggetto politico in nuce, avente come fine il “bene comune universale”. Scarta esplicitamente il modello egemonico-imperiale di globalizzazione, si oppone a quella forma di dominazione economica che, sotto la maschera di una democrazia formale, strozza col debito estero e con la rapina delle materie prime le nazioni più deboli.
  2. In questo contesto affronta il trattamento delle minoranze etniche e del rischio dell’etnocentrismo come autodifesa dall’omologazione a un modello unico.
  3. La sfida nucleare e l’ideologia della guerra che sorregge la corsa agli armamenti. L’enciclica elabora la convinzione che “nella nostra epoca, che si vanta di essere l’era atomica è alieno dalla ragione considerare ancora la guerra come mezzo idoneo per restaurare i diritti violati”: la convivenza tra Bomba e Ragione non è più possibile.
  4. La cultura della pace e della nonviolenza. Si tratta di “smontare gli spiriti, adoperandosi sinceramente a dissolvere in essi la psicosi bellica…, al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire solo nella vicendevole fiducia”. Fare delle parole della Chiesa “segni di pace” mentre sono state agenti di propaganda e di disinformazione al servizio di interessi ristretti, di pregiudizi nazionali, etnici, razziali e religiosi, di avidità materiale e di false ideologie di ogni tipo. La guerra si fa anche coi media come si fa con le armi e le economie. Non abbiamo vigilato abbastanza per evitare di cedere a codici linguistici forgiati nel dizionario della cultura del nemico, della pretesa necessità della guerra o dello scontro di civiltà.

Un altro passo significativo della Pacem in terris è certamente quello che considera «atto di più alta importanza» la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, approvata dall’Onu il 10 dicembre 1948. Era la prima volta che un testo del magistero papale faceva esplicito riferimento in senso positivo alla Dichiarazione del 1948.

Il Diritto internazionale basato sulla Carta delle Nazioni Unite (1945) definisce la guerra come ‘flagello’, la ripudia e la interdice. La Dichiarazione Universale dei diritti umani all’articolo 28 parla del diritto alla pace: ogni individuo ha diritto a un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possono essere pienamente realizzati. La pace proclamata dall’Articolo 28 è, pace positiva, intesa come la costruzione di un sistema di istituzioni, di relazioni e di politiche di cooperazione all’insegna di: “se vuoi la pace, prepara la pace”. Il contrario della pace negativa, cioè della mera assenza di guerre guerreggiate.

Con la fine della «guerra fredda», la controversa questione del principio e della pratica dell’intervento umanitario, praticato in alcuni casi già nel XIX secolo, ritorna nuovamente alla ribalta della storia contemporanea. A partire dagli anni Novanta la paralisi del Consiglio di Sicurezza, a causa della contrapposizione su molti dossier internazionali tra Usa e Urss, coincide con numerose gravi violazioni dei diritti fondamentali nel contesto di guerre civili, o in Stati in cui il potere e le istituzioni erano collassati. Ricordiamo sei grandi crisi internazionali in cui fu concesso il «mandato» di un intervento armato per motivi umanitari: difesa dei curdi iracheni (1991), dell’ex Jugoslavia (1991-1992), della Somalia (1992), del Ruanda (1993-94), di Haiti (1994) e di Timor Est (1999). Tra gli interventi posti in atto nel secolo scorso, il più controverso fu certamente quello del Kosovo, nel 1999: a differenza di tutti gli altri, fu promosso e attuato dalla Nato senza il mandato del Consiglio di Sicurezza. Occorre però ricordare che in questi anni ci furono anche casi tragici di non intervento da parte della comunità internazionale, o casi in cui non fu possibile agire, per il veto posto da uno o più membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Non vanno dimenticati, inoltre, i casi di intervento umanitario tardivo o inadeguato, come in Ruanda e nel Darfur. Giovanni Paolo II: affermò che non esiste più il «diritto all’indifferenza» e che è compito degli Stati disarmare l’aggressore, quando tutti gli altri mezzi si sono dimostrati inefficaci.

Negli anni successivi tale strumento giuridico di tutela fu messo da parte, in particolare dopo l’attentato di al-Qaeda alle Torri Gemelle nel 2001 e con l’inizio della guerra al terrorismo islamista internazionale. Gli Stati Uniti, in un mondo ormai «unipolare», pretesero di avere mano libera in una guerra che consideravano totale, senza più regole, contro chi minacciava la sicurezza del loro Paese e le maggiori capitali occidentali. Le dolorose vicende mediorientali e la guerra contro l’Isis, alla quale parteciparono, in modo diverso, alcune grandi potenze, tra cui la Russia di Putin, hanno fatto il resto.

Papa Francesco, in un libro pubblicato alla fine del 2022 intitolato, Vi chiedo in nome di Dio, affronta la questione riguardante la guerra. I Papi, nel secolo appena trascorso – scrive Francesco – non hanno risparmiato parole nel condannare la guerra, definendola di volta in volta come «un flagello» (Pio XII), o come «un’inutile strage» con cui tutto può essere perduto, e che in definitiva «è sempre una sconfitta dell’umanità» (Benedetto XV). Una barbarie, che «mai» risolve i problemi e i confitti tra gli Stati (Paolo VI). Oggi, scrive il Papa, la guerra, continua, può essere presente tra di noi in molte forme. Le più sofisticate e perverse sono quelle cosiddette «preventive» e cioè condotte, si afferma falsamente, per garantire la sicurezza in una determinata area, quelle «manipolate», quando per attaccare altri Paesi si creano dei falsi pretesti o quando sono state contraffatte le prove, e quelle «per procura», quando vengono condotte in altri Paesi per gli interessi delle grandi potenze. La guerra, in ogni caso, afferma papa Francesco, non è mai giustificata. Oggi, continua, «assistiamo a una guerra mondiale a pezzi, che tuttavia minacciano di diventare sempre più grandi, fino ad assumere la forma di un conflitto globale». L’unica via per risolvere i conflitti in atto tra Stati è perciò «fermarli in tempo, quando sono ancora in gestazione», prima che si arrivi agli scontri. E per riuscirvi servono il dialogo, i negoziati, la creatività diplomatica. A questo devono servire le grandi organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite. In tempo di guerra, in generale, «serve più multilateralismo», nonché la disponibilità da parte dei belligeranti e delle grandi potenze di intraprendere, a vari livelli, la via negoziale per arrivare alla pace, o almeno per concordare un cessate il fuoco effettivo. Papa Francesco, scrive: «La spesa mondiale in armamenti è uno degli scandali morali più gravi dell’epoca presente. Manifesta, inoltre, quanta contraddizione vi sia tra parlare di pace e, allo stesso tempo, promuovere o consentire il commercio di armi».

Foto: “Papa Francesco” di Marco Garro (CC BY-NC-ND 2.0 DEED)

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 53 di Maggio – Giugno 2024: “Chi fa la guerra non va lasciato in pace

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