di Marcella Raiola
Chi negli ultimi anni, da operatore del settore dell’istruzione, è sceso almeno una volta in piazza per denunciare quella che ormai può essere a buon diritto definita come “l’istituzionalizzazione del precariato”, avrà senz’altro sentito scandire questo slogan provocatorio e accusatorio.
È un grido che sintetizza bene il sentimento di sgomento misto a rabbia che attanaglia migliaia di lavoratori nel vedersi strumentalizzati e frustrati nelle proprie legittime aspettative di stabilizzazione da parte di uno Stato che, se da un lato continua a imporsi con la sua retorica vacua e con un indice di pressione fiscale insopportabile, dall’altro abdica alle sue funzioni precipue di garante dell’applicazione dei principi costituzionali e del rispetto dei diritti sindacali, assumendo il poco dignitoso ruolo di arbitro senza cartellino nella partita senza regole tra imprese avvezze a socializzare le loro perdite e a privatizzare i profitti.
Parlare di precariato nella Scuola, con particolare riferimento ai docenti, significa aprire un orizzonte metadiscorsivo, perché i docenti patiscono una doppia aggressione: come lavoratori, infatti, vengono mortificati dall’infinita attesa di una cattedra fissa; come educatori, vengono indotti o costretti a plasmare precari “convinti”, futuri lavoratori, cioè, persuasi che la prevedibile e, anzi, programmata discontinuità della loro vita lavorativa sia una sorta di ineluttabile fato o addirittura un valore aggiunto per la loro professionalità (basti il famoso refrain del long life learning che correda tutti i documenti europei e nostrani sulle nuove politiche scolastiche, dal Libro Bianco sull’istruzione, redatto nel 1995 della Commissione delle Comunità Europee ai numerosi contributi in materia di formazione e di riconversione aziendalistica del sistema di istruzione offerti, tra il 1987 e il 1999, dall’ERT, un’organizzazione che è espressione diretta delle maggiori multinazionali europee).
Non è affatto casuale che la Legge 176 del 25 ottobre 2007, con cui sono stati introdotti nella Scuola i contestati “quiz” predisposti dall’ente autonomo di valutazione chiamato INVALSI, che espropriano i docenti delle loro prerogative, standardizzano, banalizzandoli, i processi di apprendimento, squalificano il pensiero critico e selezionano “darwinianamente”, senza badare ai contesti socio-economici, le scuole “meritevoli” di finanziamento, postulando l’abbandono delle “immeritevoli” al proprio destino, sia stata emanata quasi in concomitanza con il più grande licenziamento di massa del personale scolastico, effettuato dal governo Berlusconi con la Legge 133 dell’agosto 2008 (140.000 posti “tagliati”).
La falcidia, finalizzata alla necessità di neutralizzare una delle poche fucine di pensiero critico rimaste e, ancor più, dalla necessità di risparmiare colpendo uno dei settori renitenti ad entrare nel circuito della mercificazione e, quindi, della “produttività” immediata e rendicontabile, è stata accompagnata da una sconcertante campagna di diffamazione dei docenti, accusati di aver precipitato la Scuola nel baratro con il loro basso livello di preparazione e con la loro resistenza passatista ad imperniare l’azione didattica attorno a discipline quali l’inglese e l’informatica, ovvero a moloch ideologici elevati a materie di studio come l’impresa.
Questi docenti sono stati additati come “meritevoli” di epurazione anche in quanto più vecchi della media europea, e perciò eo ipso meno comunicativi in classe. Alla retorica giovanilistica che assurdamente trasformava il dramma della precarietà coatta in una colpa dei docenti, si affiancava un’antitetica retorica sulla necessità del ritorno al buon tempo antico, al maestro unico (reintrodotto alle scuole elementari), al voto di condotta e perfino al grembiulino, evocativo di una scuola rigorosa, selettiva e “di qualità”. Con questa strategia, e individuando nei docenti il facile capro espiatorio di un’annosa e penosa situazione intenzionalmentecreata da una politica miope, si distoglieva l’opinione pubblica dalla valutazione dell’impatto, sulla scuola pubblica, della sottrazione di 8 miliardi di risorse, della creazione delle cosiddette classi-pollaio e del riduzionismo culturale legato alla pratica del teaching to the test, cioè dell’insegnamento finalizzato alla somministrazione (termine anch’esso significativo del nuovo corso impresso alla Scuola) dei quiz Invalsi.
I tagli Gelmini-Tremonti del 2008 in realtà hanno coronato un processo iniziato nel 1997 con l’emanazione, da parte del ministro Berlinguer, della Legge sull’autonomia scolastica (L. 59/1997, entrata in vigore con il D.P.R. n. 275/1999), che ha sancito la fine della Scuola così come profilata dalla Costituzione e, a dispetto della denominazione del provvedimento, anche dell’autonomia intesa come libertà di insegnamento e apprendimento, essendo stati esautorati gli organi collegiali, a fronte di un’espansione dei poteri dei dirigenti. Le scuole, da allora, in modo silenzioso ma inesorabile, si sono trasformate in monadiche entità autocraticamente gestite da presidi-manager che, da coordinatori della didattica, sono stati trasformati in procacciatori d’affari e di finanziamenti non più erogati dallo Stato, ma da reperire sul territorio, asservendo la Scuola alle istanze produttive dello stesso.
Sempre nel 1997 veniva emanata un’altra legge che ha pesantemente contribuito a inceppare il turn-over del personale scolastico, la L. 449, che condiziona l’assunzione dei docenti al parere favorevole del Mef (Ministero dell’economia e della finanza). Questa norma, rafforzata dall’introduzione, nella Carta Costituzionale, del pareggio di bilancio da perseguire – è il caso di dirlo! – a tutti i costi, ha consentito di prolungare indefinitamente lo stato di precarietà dei docenti, ma anche quello dei discenti, perché, a fronte di cattedre vacanti, che avrebbero potuto essere coperte con nuovi insegnanti di ruolo, ha legittimato l’iterazione abusiva di contratti a tempo determinato, per la quale, peraltro, è attesa una sentenza di condanna, il prossimo 26 novembre, per il nostro paese, da parte dell’Unione Europea, per violazione della direttiva 70/1999CE, che prescrive l’obbligatorietà della stabilizzazione dei precari che abbiano stipulato almeno 3 contratti consecutivi con lo stesso ministero o Ente.
Risultato: precari iscritti in graduatorie bloccate per 10, 15 o perfino 20 anni, chiamati a ricoprire incarichi annuali, ruotando come trottole, su cattedre vuote, assunti a settembre e licenziati a giugno, e alunni privati del diritto alla continuità didattica, che potrebbe essere definita come la prima tecnologia dell’apprendimento, senza la quale risultano del tutto vani e ininfluenti strumenti telematici avanzati come la lavagna multimediale o il tablet, introdotti con intenti meramente propagandistici in scuole fatiscenti, allo scopo di rimandare un’idea di ammodernamento delle strutture e delle metodologie. Ma le vessazioni e gli affanni dei precari, che costituiscono un sesto del personale docente della Scuola pubblica italiana, che non percepiscono scatti di carriera, non riescono ad integrarsi in un contesto né sono incentivati ad elaborare piani e progetti di cui non vedranno gli esiti, non finiscono qui.
La crisi ha dato ai governi (di “nominati” e non di “eletti”) che si sono succeduti dal 2010 in poi, l’alibi perfetto per continuare a erodere risorse e a dequalificare la scuola, aggredita in modo inusitato, con un accanimento che, al di là delle urgenze di bilancio (mai fatte pesare a settori come quello militare, peraltro!), denota e svela l’urgenza politica e ideologica del neoliberismo di demolire un comparto “indocile” e poco incline ad accettare il diktat di poteri finanziari che chiedono una formazione finalizzata all’impiego a basso costo e acritica. A poco sono valse, finora, le strenue azioni di lotta e denuncia dei movimenti spontanei e autonomi di precari nati per arginare la deriva del settore, resa possibile anche dall’incredibile silenzio condiscendente dei sindacati confederali. Nel 2011, la Riforma Fornero sulle pensioni ha bloccato in cattedra docenti con 36 anni di contributi e più di 60 d’età, non considerando la specificità della Scuola, cui non avrebbe dovuto applicarsi la nuova disciplina, perché l’anno lavorativo del docente si chiude ad agosto e non a dicembre. A tutt’oggi, docenti che anelano alla pensione e che avevano maturato il diritto alla quiescenza nell’agosto del 2012 restano in cattedra, mentre i precari invecchiano in vana attesa in graduatorie che si moltiplicano a dismisura a causa della nefanda tattica governativa consistente nell’attivare simultaneamente diversi e concorrenziali canali di reclutamento (scuole di specializzazione, concorsi, corsi abilitanti a pagamento presso le Università), per poi generare guerre intestine tra aspiranti alla cattedra, condotte spesso a colpi di ricorsi giudiziari.
Proprio nel 2012 è stato celebrato l’ultimo concorsone, voluto dal ministro Profumo, un’inutile, dispendiosa e vessatoria selezione bandita, a fronte di un numero ridicolo di posti da assegnare nell’arco di tre anni almeno, per docenti aventi pieno titolo all’assunzione e da anni in cattedra, docenti plurititolati e abilitati, ancora una volta umiliati e additati al ludibrio pubblico come incapaci e non ancora (a 40-45 anni!) sufficientemente testati, tanto da dover essere sottoposti addirittura ad un quizzone preselettivo in perfetto stile Invalsi, grottesco e inquietante nei suoi presupposti teorici quanto nelle implicazioni pedagogiche, professionali e politiche. La mancanza di un’opposizione parlamentare, in un contesto di emergenza prolungata ad arte e non mai superata, rischia di determinare quell’involuzione e quello snaturamento della Scuola prospettato e articolato nella cosiddetta Legge “Aprea-Ghizzoni”, la legge 953, che senza mezze misure prevedeva la chiamata diretta dei docenti da parte del preside, con le immaginabili derive clientelari e nepotistiche e gli effetti di omologazione ideologica, l’ingresso dei privati nei consigli di istituto e lo scioglimento del collegio docenti. Più di 600 delibere collegiali furono emanate contro la Aprea, pochi anni fa, anche a motivo del fatto che il progetto di legge era associato alla proposta di un aumento dell’orario di lavoro a 24 ore settimanali a parità di stipendio. Sarebbero state ore di lezione frontale, quindi ore sottratte ai supplenti ed assegnate al personale già inquadrato, da sfruttare al massimo, tagliando altri 50.000 posti di lavoro! Snobbata la contrattazione, ritenuta inutile perdita di tempo, i governi avanzano nella direzione del mercato selvaggio dei docenti, da assumere in ragione della contiguità alle idealità del dirigente, da pagare sempre meno (sono stati bloccati gli scatti di stipendio, prima biennali, col pretesto del reperimento di fondi per assunzioni mai fatte!) e da sfruttare intensivamente, perfino con umilianti riconversioni professionali (da docente a segretario, da docente di una disciplina a docente di sostegno), in una Scuola in cui si vorrebbe che i tempi di apprendimento e la dialettica costruttiva lasciassero definitivamente il posto all’addestramento forzoso e all’interesse di privati che vedono nella Scuola-azienda una nuova “piazza” di mercato.
Il pericolo del disegno di legge Aprea non è stato scongiurato. Il governo Renzi ne ha ripreso punto per punto il testo e lo propone ora, con una nuova investitura politica, un consenso e un potere di persuasione maggiori, come progetto di “riforma” scolastica complessiva, usando un linguaggio liquidatorio e semplicistico accattivante per i non addetti ed agghiacciante per chi è del mestiere. Il 3 settembre scorso, il progetto di riforma intitolato “La Buona Scuola”, con un lessico valutativo teso a screditare ogni altra prassi o idea generale, è stato reso noto e sottoposto ad una stucchevole “consultazione”, in realtà un sondaggio pubblicitario di gradimento del “prodotto”, terminata la quale si farà un decreto-legge, l’ennesimo, per distruggere per sempre e del tutto quel che resta della Scuola della Costituzione, la scuola laica, inclusiva, libera, pluralistica, devoluta non alla formazione del lavoratore precarizzabile ma alla formazione del cittadino consapevole. I precari, allettati da un’immissione di ruolo di massa, promessa incoativamentenel programma de “La Buona Scuola”, devono respingere con ogni forza questo piano, non solo perché l’immissione è un loro diritto e non una concessione graziosa, per di più subordinata all’accettazione di condizioni assurde e irricevibili (demansionamento funzionale occasionale, mobilità selvaggia, obbligo di “somministrare” l’Invalsi, competizione sfrenata tra colleghi per accaparrarsi il salario accessorio), ma perché a loro, per necessità più vigili, in questi anni, nonché meglio informati sugli intendimenti reali del potere, la Scuola affida le sue ultime speranze di restare “scuola”, di non diventare una triste caserma monocolore che, invece della libertà, della critica, del metodo di indagine, della sensibilità, insegna l’obbedienza, il conformismo, il consumismo e “normalizza”, celebrandola, la precarietà.
Tratto dal Granello di Sabbia di Ottobre 2014: “La Buona ScuolAzienda”, scaricabile QUI