di Roberto Guaglianone
Sono ormai quasi 10 anni che l’Italia può essere considerata “terra d’asilo” per il numero di richieste di protezione internazionale che vi vengono presentate. Dalle 36000 del primo “picco” registrato nel 2008, si è oggi arrivati al doppio di quella cifra dal 2014. Ancora lontanissimi da numeri tedeschi, per intenderci.
Se si eccettua l’importante ampliamento del sistema di “accoglienza integrata” SPRAR (vedi sotto), poco è davvero cambiato, in questi ultimi otto anni, sotto il cielo di questo Paese sul versante delle politiche e dei servizi per l’asilo.
Anzi, il D.Lgs 142/2015, che recepisce alcune direttive europee, introduce, tra l’altro, nella filiera dell’accoglienza la controversa funzione “hotspot” dei Centri situati in prossimità dei luoghi di sbarco: non c’è stato bisogno di attendere l’esito dello scellerato accordo UE-Turchia che ci ha spalancato gli occhi sulla funzione di sostanziale imprigionamento degli asilanti “accolti” in queste strutture: già nei primi mesi della loro apertura, quelli italiani – tra cui Lampedusa, oggi sono 6 tra Puglia, Sicilia e Sardegna – avevano palesato manifeste violazioni di diritti, al punto di provocare l’indignata protesta ufficiale dei principali enti di tutela italiani, dalla Caritas Italiana all’ARCI.
Gli “hotspot” si configurano come il luogo dove si vorrebbe operare la “scrematura” tra i “veri richiedenti asilo” e i “migranti economici”, che già oggi non trovano alcuna via legale per un ingresso non clandestino nel nostro Paese, dove è ancora vigente ancorché “pluriemendata”, la legge 189/2002 sull’immigrazione, la famigerata “Bossi-Fini”, che è riuscita a mantenere il suo carattere peculiare: quello di impedire di fatto gli ingressi per lavoro continuativo di persone straniere nel nostro Paese.
E siamo soltanto al primo “anello” della filiera di servizi, che – secondo la normativa vigente – dovrebbe rendere esigibile, da parte dei suoi beneficiari, il diritto d’asilo sancito dall’articolo 10 della nostra Costituzione. La prima importante conseguenza della presenza di questi centri è infatti la progressiva riapertura dei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) che, introdotti dall’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano, la storia stava consegnando alla loro naturale rottamazione ma che un piano governativo vorrebbe far risorgere a nuova vita, come infami contenitori senza regole di presunti “falsi asilanti”. Per i quali, peraltro, la legge prevede che la decisione in merito alla loro richiesta di protezione internazionale debba essere presa, salvo casi limitatissimi, dalle competenti Commissioni Territoriali per il Riconoscimento della Protezione Internazionale, davanti alle quali queste persone hanno diritto di essere ascoltate e di provare la veridicità della loro richiesta di asilo.
Andando a valle di questa filiera, ci imbattiamo in altre vergogne d’Italia che la cosiddetta “emergenza” permette di mantenere in vita, come il CARA (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo) di Mineo ed altre strutture simili, basate sul concentramento di persone, per cui si va dai 4000 posti della “cittadella” siciliana ai 150 di Gradisca d’Isonzo, passando attraverso i 700 di Castelnuovo di Porto, appena fuori Roma. Per tutte queste strutture, molte delle quali edificate in prossimità dei CIE, vale una sola regola: isolare i loro “ospiti” dai contest urbani e quindi dal contatto con la popolazione locale. Pur essendo liberi di circolare fuori da queste strutture spesso i loro “ospiti” non vedono anima viva.
Sono circa 12000 i posti attualmente disponibili nelle strutture dedicate alla prima fase di presenza sul territorio dei richiedenti asilo. Sono invece quasi 100mila – per diventare nelle prospettive del governo almeno 150mila – i CAS, Centri di Accoglienza Straordinaria, a gestione prefettizia, veri esempi del modo emergenziale di gestire le politiche dell’asilo da parte dell’Italia.
Deve quindi indignarci ma non stupirci il fatto che in Italia la gestione dell’asilo venga ancora governata in nome dell’emergenza, a un decennio o quasi da quando le presenze di asilanti sono diventate abbastanza rilevanti. Per almeno due buoni motivi:
– il primo: l’emergenza continua evita di dover fare scelte politiche di lungo respiro. In Italia, infatti, potremmo dotarci di un funzionale Sistema di protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) di 100-150 mila posti, al posto di quello attuale, che ne conta meno di 30mila, governato da 500 comuni su adesione spontanea. Un servizio che va oltre la prima ricezione, prevedendo forme di “accoglienza integrata” volte all’inserimento sociale, se non all’integrazione, dei suoi beneficiari. La regia è pubblica. E costa meno dei 35 euro al giorno del sistema di emergenza, rispetto al quale è infinitamente più controllato. Come fare a dimensionarlo su un numero così alto di posti disponibili? Come fece il governo italiano nel 1991 (dopo la vergogna dello Stadio delle Vittorie di Bari trasformato in un “campo di concentramento”) per favorire l’integrazione di migranti albanesi sul nostro territorio, quando obbligò tutti i comuni d’Italia ad accogliere persone in proporzione alla propria popolazione (allora furono 1 ogni 2000 abitanti, oggi – per 120mila posti – sarebbero 2 ogni 1000);
– il secondo, che è anche conseguenza del primo: la scelta dell’emergenza gestita direttamente dal Ministero dell’Interno competente in materia attraverso le Prefetture, nella consapevolezza della quasi impossibilità di controllare la qualità della gestione, favorisce – spesso scientemente – gestioni di pessima qualità. In assenza di requisiti di comprovata esperienza e certificata assenza di lucro, un settore così delicato viene parte lasciato nelle mani di operatori sociali improvvisati, quando non di albergatori senza alcuna preparazione, fino all’abiezione della gestione affaristica o malavitosa di cui le vicende di Mafia Capitale hanno plasticamente fornito l’esempio.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 24 di Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 24 di Maggio-Giugno 2016 “Il Grande Esodo“