In fuga dalle guerre

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di Alessandra Sciurba (Coordinatrice della Clinica legale migrazioni e diritti dell’Università di Palermo)

Le guerre non hanno mai smesso di falcidiare la parte più povera del pianeta, quella che paga ancora il prezzo dei saccheggi del colonialismo e di tutte le dinamiche postcoloniali che si intrecciano con le depredazioni del capitalismo nell’era della globalizzazione, e in cui anche la democrazia è stata principalmente usata come strumento di nuove conquiste e asservimento. In molti Sud del mondo è stato così lasciato pochissimo margine affinché si autodeterminasse una via terza tra l’imposizione di leader laici, tendenzialmente corrotti e dittatoriali, ma ritenuti partner più o meno affidabili dalle forze occidentali per continuare a promuovere i propri interessi, e governi confessionali per altro verso oppressivi e oscurantisti. Tutto questo ha favorito una costante instabilità e l’insorgere continuo di conflitti di varie intensità.

Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, in una parte di mondo molto diversa e conseguenza di dinamiche del tutto differenti, erano già in corso 58 conflitti armati, della maggior parte dei quali, mentre l’aggressione di Vladimir Putin era in prima pagina ovunque, non arrivava quasi notizia nei media occidentali. La gravità delle guerre, infatti, nella percezione costruita nelle nostre società, non è sempre la stessa, come non lo è la dignità riconosciuta alle vittime, Palestina docet, e non lo sono i rifugiati e le rifugiate costrette a lasciare i propri paesi.

Perché dalla guerra si fugge, ovviamente, come si può, dove si può: secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati sono più di 110 milioni le persone sfollate nel pianeta (ma meno della metà varca confini internazionali). Di queste, dieci milioni hanno lasciato le loro case in Sudan dopo che nell’aprile del 2023 ha avuto inizio il conflitto civile. Seguono i quasi sette milioni di sfollati siriani, conseguenza di 13 anni di combattimenti, dei quali un milione e mezzo sono rifugiati in Libano. Paradossalmente, infatti, sono i Paesi più poveri del mondo a mostrare maggiore disponibilità nel lasciare attraversare le loro frontiere ai profughi e alle profughe: più del 75% di queste sono accolte da Stati a basso e medio reddito.

Gli Stati con più risorse, insomma, accolgono molto meno degli altri e fanno molto meno di quello che, in proporzione, potrebbero fare.

Eppure, mentre negli ultimi anni assistiamo a una normalizzazione dello stato di guerra permanente e della conseguente crisi dei rifugiati proprio nei Paesi più ricchi, che sono peraltro storicamente la culla proclamata dei diritti umani, la vera crisi in atto riguarda il diritto d’asilo, trattato ormai dai governi come un orpello di cui disfarsi, pur non potendo (o almeno non ancora) formalmente stralciarlo dal Diritto internazionale e dalle Costituzioni nazionali. L’asilo è da tempo oggetto di un graduale e inesorabile svuotamento dei principi che lo hanno sancito come diritto fondamentale universale all’indomani della Seconda guerra mondiale nella Dichiarazione universale dei diritti umani, in tutte le Costituzioni europee, e nella Convenzione Onu sullo status di rifugiato firmata a Ginevra nel 1951 (poi resa davvero universale con il protocollo di New York del 1967 che ha cancellato ogni riserva geografica e temporale).

Il principio di non-refoulement – che afferma che nessuno può essere allontanato verso un luogo dove rischia la vita o di subire trattamenti inumani e degradanti – è stato ad esempio tradito nel 2016, con il Piano congiunto d’azione tra Ue e Turchia che prevede, come primo obiettivo, il respingimento indistinto «di tutti i nuovi migranti irregolari e richiedenti asilo» nel Paese di Recep Tayyip Erdoğan, considerato non abbastanza democratico per entrare a fare parte dell’Unione europea, ma abbastanza affidabile per delegargli il controllo sulla vita e la morte dei milioni di persone in fuga dalle guerre mediorientali che fino a quel momento avevano percorso la cosiddetta rotta balcanica. La strage di Steccato di Cutro, del febbraio 2023, è conseguenza anche del cambiamento delle rotte dopo la firma di questo Piano, fino a costringere le persone, pur di aggirare le frontiere ormai militarizzate, a tentare traversate pericolosissime come quella via mare dalla Turchia alla Calabria che avevano seguito proprio le donne, gli uomini e i tanti bambini, prevalentemente provenienti dall’Afghanistan, che si trovavano su quel caicco lasciato a schiantarsi a pochi metri dalla costa italiana.

Lo stesso principio è costantemente violato dai respingimenti in mare operati su delega italiana da paesi come la Libia o la Tunisia, con il paradossale contraltare della criminalizzazione delle Organizzazioni non governative (Ong) che operano invece attività di Search and Rescue nel rispetto del diritto internazionale, all’interno di un processo di esternalizzazione delle frontiere (e delle procedure dell’asilo) che coinvolge e finanzia anche Paesi al collasso o retti da milizie, dove è notorio che i diritti fondamentali vengano sistematicamente violati.

Il principio di non discriminazione nell’accesso al diritto d’asilo è invece aggirato da dispositivi quali le liste dei cosiddetti Paesi terzi sicuri, che di fatto rendono chi proviene da quei Paesi richiedenti asilo di rango minore, inseriti in procedure accelerate prive di garanzie, e a costante rischio di frettolose espulsioni – e quindi, nuovamente, di violazione anche del principio di non refoulement – senza che sia avvenuta una valutazione adeguata della loro situazione personale. È stupefacente leggere la lista stilata dall’Italia degli Stati ritenuti sicuri, tra i quali, – oltre a paesi come la Costa D’Avorio o la Nigeria, rispetto ai quali basta leggere i rapporti di Amnesty International per capire quanto inopportuno sia il loro inserimento in questo elenco, o come la Tunisia, ormai tristemente famosa per la nuova fase di repressione delle libertà civili e per le recrudescenze razziste contro i “neri” –, sono stati da pochissimo aggiunti anche il Camerun e, addirittura, l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, lo stesso Paese in cui Giulio Regeni è stato arrestato, torturato e ammazzato, e in cui Patrick Zaki è stato detenuto, com’è noto, solo per avere espresso posizioni contrarie al governo.

Il principio per cui non si può perseguire qualcuno che attraversa una frontiera per chiedere asilo, anche qualora lo facesse violando la normativa vigente, è poi nei fatti sempre di più compromesso da un approccio criminalizzante, difensivo e sicuritario rispetto al quale sono piegati anche i principi fondamentali delle Costituzioni vigenti, che si concretizza ad esempio nella detenzione generalizzata dei e delle richiedenti protezione.

In tutto questo, il nodo di fondo rimane l’incompatibilità della proclamata difesa dei confini nazionali, se tale difesa implica la possibilità di chiuderli incondizionatamente a ogni straniero, o a categorie intere di stranieri (ad esempio tutti quelli che non possono ottenere un visto d’ingresso nel paese d’origine), con l’effettività del diritto d’asilo. Al di là della distinzione spesso del tutto fittizia tra migrazioni economiche e migrazioni forzate (la maggior parte dei percorsi migratori ha all’origine un misto di cause, data la correlazione in molte aree del mondo tra estrema povertà, mancanza di democrazia e violazione dei diritti), infatti, nemmeno per i profughi che una volta arrivati in Europa sarebbero riconosciuti come tali esistono canali di ingresso diversi da quelli ormai blindati dalle politiche migratorie.

Questo processo di distruzione del diritto d’asilo non ha trovato fino a ora alcun ostacolo sul suo cammino, eccezion fatta per le azioni della società civile, sempre più represse e criminalizzate, per l’opposizione di alcuni giudici che continuano a tenere il punto sul rispetto del diritto e dei diritti, e per le esternazioni di Agenzie Onu e Istituzioni del Consiglio d’Europa che però non hanno alcuna incidenza effettiva sulla realtà. Esso ha invece trovato costante sostegno nelle scelte dell’Ue, a cominciare dal già citato accordo con la Turchia, fino al Patto immigrazione e asilo votato dal Parlamento europeo il 10 aprile 2024 che ha dato piena legittimazione alle politiche degli Stati membri che da decenni dimostrano la loro totale irrazionalità e inefficacia rispetto agli scopi dichiarati, producendo illegalità e insicurezza, oltre che straordinarie possibilità di lucro per chi gestisce il traffico di esseri umani e le forme di schiavitù contemporanea.

Eppure, tornando alla guerra in Ucraina, la reazione dell’Ue di fronte alle persone in fuga da quel Paese avrebbe dovuto dimostrare che un altro tipo di approccio è assolutamente possibile. A marzo del 2022, infatti, l’Unione europea ha finalmente applicato, per i soli profughi e le sole profughe dell’Ucraina, la Direttiva sulla Protezione temporanea, 2001/55/CE del 20 luglio 2001, permettendo a quelle persone, come era giusto che fosse, di ottenere immediatamente permessi di soggiorno regolari all’interno di procedure semplificate che però non sono mai state attuate prima per tutte le altre persone in fuga da conflitti altrettanto terribili. Anche le risorse economiche sono state immediatamente reperite, e nessuno ha urlato all’invasione di fronte a 2,3 milioni di persone fuggite dal territorio ucraino verso gli altri Stati dell’Ue già nelle prime due settimane di guerra: numeri molto più alti di quelli dei profughi delle guerre dei Balcani o del Kosovo, o di quelli della cosiddetta crisi dei rifugiati del 2015/2016, anno in cui 900mila persone entrarono nel territorio dell’Unione europea, venne dichiarata l’emergenza, e si diede un giro di vite senza precedenti alla militarizzazione ed esternalizzazione delle frontiere.

Guerre e profughi, ripetiamolo, non sono tutti uguali. Ce lo insegna la schizofrenia della frontiera polacca dove al confine con l’Ucraina si accoglie con le cure dovute chi attraversa il confine, e si premia chi aiuta le persone a farlo, mentre a quello con la Bielorussia si usano manganelli e lacrimogeni anche contro le donne e i bambini provenienti dagli altri conflitti, come quello siriano o afghano, e si arresta e si indaga chiunque porti loro sostegno. Ce lo insegna il massacro in Palestina di fronte al quale nessun Paese occidentale sta prendendo posizione come è accaduto per l’Ucraina, e che continua nell’indifferenza, se non con il sostegno al governo israeliano, di molti dei Paesi che invece non hanno esitato a condannare la violenza russa.

Immagini:

“Richiedenti asilo preparano la cena per festeggiare la fine del Ramadan (Eid al-Fitr) nel cortile del silos di Trieste. Molte persone che vivono nel silos hanno presentato richiesta di asilo come rifugiato o altra forma di protezione, pertanto avrebbero diritto a vitto, alloggio, assistenza sanitaria e corsi di lingua italiana”. Foto: M.BARIONA

Sytuacja na granicy polsko-białoruskiej. Situation at the Poland-Belarus border” di Kancelaria Premiera (CC BY-NC-ND 2.0)

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 53 di Maggio – Giugno 2024: “Chi fa la guerra non va lasciato in pace

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