di Pino Cosentino
Necessità del partito.
La relazione di Paolo Gerbaudo ha delimitato il tema, o per meglio dire ha concentrato l’attenzione su un punto, a partire da un interrogativo meno proiettato nel futuro ma che ha consentito di legare valori e aspirazioni con l’attualità politica: in che modo, con quali mezzi i popoli possono opporsi, nelle condizioni odierne, allo strapotere delle oligarchie? La risposta di Gerbaudo è netta: con un’organizzazione di tipo partitico, ma con l’aiuto dei moderni mezzi di comunicazione interattiva che, se ben usati, consentono di allargare la partecipazione popolare fino a livelli prima impossibili.
I partiti non sono affatto morti, i motivi della loro esistenza ci sono ancora tutti. Debbono rinnovarsi, adeguarsi alle condizioni dell’oggi, trovare nuove vie per essere ancora, come furono nel passato, strumenti di partecipazione popolare, luoghi di formazione politica e di elaborazione di identità collettive. Oggi lo possono fare usando al meglio i nuovi mezzi offerti dalla rivoluzione digitale, purché riescano a neutralizzarne gli aspetti negativi, non scambino il virtuale per il reale.
Il mezzo digitale serve per facilitare la partecipazione di persona, non per sostituirla. Gerbaudo fa due esempi virtuosi: il Labour Party, di cui lui stesso è membro, e Podemos. In entrambi – un partito nato qualche anno fa in Spagna dai movimenti di protesta contro le politiche anti-crisi a favore della finanza e un altro invece con una storia più che secolare – troviamo gli ingredienti del partito nuovo, adeguato alle esigenze del nostro tempo: un leader forte e autorevole (Iglesias, Corbyn), l’uso sapiente delle nuove tecnologie, una struttura organizzativa “pesante”. Quello che il relatore chiama “3° elemento”. Dando per scontato che il partito nuovo esprima una linea politica realmente “popolare”, l’attenzione si concentra sugli elementi strutturali che lo caratterizzano.
Ed è su questo soprattutto che Gerbaudo va in controtendenza, contrapponendosi nettamente a idee ormai consolidate nei movimenti “alternativi”, ma anche nel senso comune. La più “scandalosa” è la rivalutazione della burocrazia, il “3° elemento”.
Il 3° elemento
Questo per il relatore è veramente il fattore decisivo. Leader non mancano, e neanche le persone interessate alla partecipazione politica, come è dimostrato dalla diffusione di movimenti organizzati in comitati e associazioni sia locali che nazionali. Ciò che decide se la vasta base, effettivamente o potenzialmente disponibile ad attivarsi, riesca a amalgamarsi in una struttura organizzata, capace di esprimere progetti politici coerenti e di dare forma e vita a un’opposizione efficace e multilivello (dai comuni al governo nazionale e oltre) alle politiche delle oligarchie, è l’esistenza o meno di una struttura permanente, di tipo professionale, che un tempo i partiti avevano. La deriva neo-liberale ha condannato ogni tipo di burocrazia, raffigurata come un potere oscuro, malefico, sempre e comunque dannoso. Ma la scomparsa di una struttura professionale capace di essere un efficace tramite tra i vertici e la base del partito dandogli continuità e stabilità, è la causa della personalizzazione estrema della politica, dove i leader cercano il rapporto diretto, senza mediazioni, con la base, usando i social e i media, ponendosi così come iper-leader, più popolari del loro stesso partito.
In conclusione è impossibile che dai movimenti più o meno spontanei, locali o anche nazionali, nasca una forza politica capace di contrastare efficacemente i poteri costituiti. La democrazia diretta attraverso l’uso di internet è un inganno, le consultazioni on line finiscono fatalmente per confermare le proposte dei vertici. Bisogna invece prendere esempio da chi è riuscito, come appunto Podemos ma anche il Labour fino a qualche anno fa in profondissima crisi, a incidere sulla scelte politiche dei propri paesi.
Discussione e considerazioni (quasi) finali.
La relazione ha suscitato molto interesse e perciò la discussione nei gruppi si è concentrata sulla funzione dell’organizzazione nel facilitare discussione e confronto, perché ciò che veramente importa è come si giunge alla decisione, quindi tutto ciò che precede la presa di decisioni finali. Solo un’organizzazione che unisca fisicamente le persone produce conoscenza e autonomia, mentre un uso plebiscitario di internet con il voto on line su proposte selezionate e formulate dalla dirigenza si risolvono inevitabilmente a favore di quest’ultima. Ma la partecipazione di persona implica per gran parte della popolazione inconvenienti difficilmente superabili. Perciò una partecipazione ampia è molto difficile da raggiungere, nelle condizioni attuali. Questo conferma la funzione insostituibile di un’organizzazione professionale.
Noi possiamo, e quindi dobbiamo, nel nostro ambito (Attac) fare in modo che tutti i partecipanti a un incontro si esprimano, per esempio facendo parlare tutti a giro; inoltre bisogna fare in modo di garantire una certa continuità per raggiungere dei risultati che restino, almeno fino al loro superamento.
Considerazione conclusiva.
La riesumazione della burocrazia di partito non mi convince affatto, ma è molto positivo che la questione sia stata posta, in termini così espliciti e concreti.
Gerbaudo propone un aggiornamento del partito tradizionale, mediante l’accorto uso delle nuove tecnologie digitali. Ma qui si ripropone lo stesso bivio, riguardante le tecnologie digitali: debbono sostituire, o facilitare? Domanda retorica dall’ovvia risposta. Però se la burocrazia è vista come la soluzione del problema dell’inferiorità sociale del popolo rispetto all’élite si cade nella prima alternativa.
Una struttura organizzativa permanente non deve essere sostitutiva della più ampia partecipazione popolare, non tanto in termini numerici, quanto in termini qualitativi e di potere decisionale. Perciò il dato sostanziale non è se debba esserci una struttura organizzativa efficace, anche professionale se occorre, ma quali siano le condizioni che lo permettano. In altri termini: come il popolo possa raggiungere il livello di autorganizzazione che gli permette di usare una struttura tecnica senza temere di diventarne il servitore.
Questa ritengo che sia la direzione che dovrebbe prendere la nostra discussione.
A questo proposito mi permetto di consigliare un libro, frutto del lavoro di inchiesta di una dozzina di sociologi e politologi accademici, riuniti sotto la comune denominazione di Cantiere delle idee. Il libro si intitola Popolo chi? Classi popolari, periferie e politica in Italia, a cura di Niccolò Bertuzzi, Carlotta Caciagli, Loris Caruso, prefazione di Nadia Urbinati, Ediesse 2019. I risultati non mi paiono sensazionali, il metodo dell’inchiesta qualitativa non è una scoperta, il problema è che queste belle cose restano solitamente nel mondo delle idee, evocate e mai realizzate. Anche questo libro non supera il confine tra osservatori e osservati, né un libro potrebbe farlo. L’inchiesta non è finalizzata al cambiamento, che dovrebbe coinvolgere in primo luogo gli stessi intervistati e intervistatori a seguito dell’interrelazione sviluppatasi tra loro. I ruoli restano ben differenziati, il risultato è, appunto, un libro. Tuttavia i risultati sono interessanti, in sé e per il metodo adottato. Il libro apre uno spiraglio sulla possibilità di una politica davvero trasformativa.
E’ ancora lunga la strada per la società che vogliamo, ma non mancano i segnali di svolte che stanno maturando nel sottosuolo dove scava instancabile la vecchia talpa.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 41 di Settembre – Ottobre 2019. “La società che vogliamo“