Il NO alla riforma costituzionale di Renzi passa per le città

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di Alessandro Torti (Decide la Città)

È possibile contrastare il disegno di riforma costituzionale voluto da Renzi, da Napolitano e dai “poteri forti” finanziari transnazionali a partire dall’ottica propria dell’ingegneria costituzionale: ossia di quella presunta scienza, certamente inesatta, che si pone l’obiettivo di comparare e combinare modelli di stato, di governo, di amministrazione, al fine di trovare la migliore delle possibili forme di esercizio del potere politico nella democrazia rappresentativa.

Il rischio di questi approcci meccanici, ingegneristici appunto, è duplice.

Da un lato, c’è il rischio di non leggere le costituzioni nella loro dimensione materiale, nel loro contesto storico, in relazione alle possibilità concrete di esercizio dei diritti democratici, con riferimento alla qualità effettiva della classe politica che in ogni epoca incarna quelle costituzioni, parametrando l’efficacia delle norme fondamentali ai loro esiti sulla qualità della vita, ai loro effetti sui bisogni, sui desideri, sulle rivendicazioni e sulle istanze delle persone.
Il secondo rischio è quello di assumere la governabilità – ossia la possibilità di prendere decisioni rapide ed efficaci, e di attribuire con chiarezza a qualcuno la responsabilità di quelle decisioni – come un obiettivo in quanto tale, come un valore assoluto.

La governabilità, invece, non è un valore, probabilmente neppure relativo.

Negli ultimi anni, sono state tante le “decisioni” piuttosto rapide, certamente efficaci, e direttamente attribuibili in termini di responsabilità (soprattutto al Partito Democratico): nel breve triennio 2014-2016 il Jobs Act, la Buona scuola e lo Sblocca Italia sono riusciti a devastare in maniera strutturale tre settori fondamentali della vita di ciascuno (il lavoro, l’istruzione e il territorio).

Prima ancora, nel 2012, alla riforma Fornero è bastato un colpo di mano per condannare al lavoro fino a 70 anni gli anziani e alla disoccupazione forzata i giovani.
E, prima ancora, nel 2010, non è bastato il bicameralismo paritario, né uno straordinario movimento moltitudinario di studenti e giovani precari, ad impedire l’approvazione della Riforma Gelmini, che ha posto l’università e la ricerca pubbliche sulla via della definitiva dismissione.
Al contrario, l’indecente attesa dell’approvazioni di leggi di minima civiltà (l’introduzione del reato di tortura o la legalizzazione del consumo della cannabis, ad esempio), o anche l’ignobile teatrino di mediazione al ribasso che ha circondato l’approvazione della legge sulle unioni civili, raccontano di blocchi politici che difficilmente sarebbero superabili in termini di governabilità.
Insomma, dopo almeno venticinque anni di sedicenti riforme antipopolari, semplicemente ingiuste, sarebbe quantomeno sadico attribuire a questa (come ad un’altra) classe politica la capacità di decidere in maniera ancora più rapida, ancora più efficace.

Comunque, anche da quel punto di vista – ovvero quello della ingegneria costituzionale – la riforma costituzionale è oggettivamente pessima.

Si tratta delle argomentazioni da cui muove la critica dei migliori giuristi italiani (quelli intellettualmente più onesti; quelli che, evidentemente, non hanno troppo da perdere nei Dipartimenti universitari dal conflitto col partito di governo).

Un articolato lunghissimo, stentato o addirittura errato nella sintassi della lingua italiana, raccogliticcio, confuso.

Un impianto di bicameralismo “imperfetto” bizantino, che non accorcia i tempi dell’iter legislativo ma che certamente comprime al minimo la discussione parlamentare, con l’unico esito di aumentare i poteri dell’esecutivo.

Soprattutto, un sistema che non riduce strutturalmente i costi della politica, contrariamente a quanto la propaganda governativa mira a far credere.

Particolarmente grottesca, tra tutte, è l’insistenza sull’abolizione del CNEL, ente di cui nessuno avvertiva neppure la presenza, e di cui davvero nessuno avvertirà l’assenza .

Contestare questa orribile riforma costituzionale si può (e si deve) fare anche da un altro punto di vista: quello di chi, nei territori, nelle città soprattutto, sta provando a sperimentare nuove e inedite forme della politica.
Si tratta degli esperimenti di nuovo municipalismo, che pongono al centro della riflessione e dell’azione collettiva il tema della partecipazione, costruita sinergicamente nelle assemblee di quartiere e nelle reti digitali, e che inventa quotidianamente la pratica di un nuovo diritto alla città tramite gli strumenti dell’autogoverno.
Si tratta della capacità dei movimenti urbani di non limitarsi alle vertenze più antiche o più recenti, né soltanto all’opportunità di metterle in rete tra loro: si tratta, piuttosto, dell’attitudine a creare piattaforme partecipative dal basso, che riguardano i temi cruciali della vita politica metropolitana – dai servizi pubblici essenziali alla gestione del patrimonio pubblico, dalle scelte urbanistiche al bilancio e al debito degli enti locali – e sui cui si interrogano le amministrazioni di prossimità, si sfidano le loro prassi di governo, si rivendica diritto di proposta, di consultazione e di veto sulle decisioni.

Dal punto di vista di queste esperienze, la riforma costituzionale non può essere indifferente. Innanzitutto per un dato basilare di cultura politica: se questi movimenti urbani, in tutta Italia, stanno oggi rivendicando nuovi spazi di democrazia, che scavalchino quelli attualmente esistenti, assumendo in pieno la crisi radicale della rappresentanza politica novecentesca e delle forme classiche dell’organizzazione, allora la riforma costituzionale, con il suo carico di pesante restrizione dei margini di democrazia (soprattutto – ma non solo – nella dimensione del cosiddetto «combinato disposto» con il premio di maggioranza e i criteri di costruzione delle liste dell’Italicum), non può che porsi come oggetto di una radicale campagna di contestazione.

Ma è anche nel merito che si delinea un conflitto insanabile; in particolare, nella ridefinizione dei rapporti tra Stato centrale e periferia, tema che va più comunemente sotto la voce: ruolo delle Regioni.

Il Titolo V della Parte II della Costituzione, già riformato nel 2001 con la costruzione di un modello di federalismo mancato, criticabilissimo sotto diversi profili, viene nuovamente modificato, risolvendo il male palesatosi, con una cura ancora peggiore.

La riforma, infatti, propone un sostanziale ri-accentramento delle funzioni fondamentali, svuotando di fatto gli Enti locali di autonomia decisionale (mentre – paradossalmente – a quegli stessi enti si “regala” un’inutile rappresentanza politica nel nuovo Senato!).
Tra tutte, dal punto di vista del neo-municipalismo, spicca l’esplicita attribuzione allo Stato della competenza esclusiva nella materia “governo del territorio”, espressione talmente vaga da poter comprendere, in sostanza, qualunque provvedimento riguardi i territori.

Ci sono poi due clausole, in particolare, che sanciscono il ritorno allo “Stato di polizia” ottocentesco: da un lato, la cosiddetta clausola di supremazia (nuovo art. 117), che consente allo Stato centrale di commissariare direttamente gli Enti locali nel caso in cui non rispettino i parametri nazionali obbligatori, primo fra tutti l’obbligo di pareggio di bilancio; dall’altro lato, la clausola (nuovo art. 116) che consente allo Stato di attribuire nuovi e più ampi poteri alle sole Regioni che dimostrino di “meritarlo”, (solo) perché rientrano, appunto, nei parametri del pareggio di bilancio.

Così, l’obbligo costituzionale all’austerità, introdotto surrettiziamente nel 2012 con le larghe intese e senza consultazione referendaria (art. 81), diviene effettivo e generalizzato; così, il patto di stabilità viene ulteriormente imposto tramite un duplice dispositivo, punitivo e premiale insieme.

Per chi, nei territori, nelle città specialmente, rivendica e costruisce quotidianamente nuovi spazi di democrazia dal basso, l’esautoramento di fatto delle istituzioni di prossimità costituisce un problema serio, soprattutto se esso si dà a partire dai vincoli di bilancio.
Non solo (e non tanto) perché i movimenti neo-municipalisti rivendicano, genericamente, il decentramento politico e amministrativo, perché essi si pongono costitutivamente contro ogni forma di commissariamento, palese od occulto.
Ma soprattutto perché è esattamente nei confronti di quei governi di prossimità che i movimenti per il diritto alla città pongono istanze dal basso, costruiscono piattaforme rivendicative, immaginano e agiscono le pratiche dell’autogoverno.
Il ri-accentramento allo Stato della decisione politica non serve solo a spostare più in alto il livello del conflitto: serve a comprimerlo.

È questo livello di consapevolezza che porterà il 4 novembre le città a dire NO; è con questa ambizione costituente che, dal giorno dopo, da quelle stesse città sarà rilanciata la sfida per la costruzione e la pratica di nuovi, veri spazi di democrazia.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 26 di Novembre-Dicembre 2016 Voglio cambiare davvero, quindi voto NO!

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