Di chi è la città

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Foto di Matt Brown

di Paolo Berdini

Le città nascono da esigenze economiche. Sono plasmate della cultura artistica e storica, ma sono figlie delle ricchezze che producono. Per più di cinque millenni hanno saputo mantenere un equilibrio tra le esigenze produttive che rendevano possibile la vita della popolazione e a garantire il funzionamento delle attività urbane. Anche quando in epoca moderna le città sono state investite dal fenomeno delle grande industria manifatturiera, i processi di identità dei luoghi sono rimasti più o meno indenni. Il dominio dell’economia neoliberista sta sconvolgendo i paradigmi storici che hanno generato le città e stanno causando fenomeni di  omologazione planetari. Questo dominio incontrastato dell’economia dominante dura ormai da trenta anni e oggi possiamo iniziare a leggere in modo sistematico le tre discontinuità con il percorso storico urbano.

La prima discontinuità riguarda il sistema delle proprietà fondiarie che sono state il serbatoio con cui si è arricchita la classe dominante italiana. Tutti gli strumenti urbanistici delle grandi città si basavano sul motore della rendita urbana, aumentando a dismisura i valori fondiari così da permettere enormi plusvalenze alle grandi proprietà immobiliari.

Dopo undici anni di crisi economica e finanziaria, stiamo assistendo ad un fatto inedito. Le proprietà vere sono nelle mani del sistema del credito che si era  prestato al gioco del finanziamento di una rendita giudicata eternamente in crescita e oggi devono rientrare ad ogni costo dell’esposizione finanziaria. Roma è un esempio perfetto. Unicredit deve rientrare dal finanziamento verso il gruppo proponente dello stadio della Roma (180 milioni) e della proprietà dell’ex Fiera di Roma (180 milioni). Le due operazioni devono dunque arrivare all’attuazione non perché abbiano un loro motivo di esistere nel quadro di una visione urbana, ma perché devono coprire i buchi di bilancio.

Ma il centro delle attenzioni del capitale globalizzato non è Roma, ma Milano, dove si stanno rimettendo in moto le trasformazioni ferme da un decennio grazie ai fondi immobiliari e sovrani, ci dice che si sta avviando verso una nuova fase.

La crisi economica del 2008 aveva bloccato il quartiere di Santa Giulia (l’immobiliarista Zunino è stato travolto dalla crisi) ed è oggi sostituito da Lendlease, gruppo immobiliare australiano; Porta Vittoria (Danilo Coppola)  è stata presa in mano dal fondo statunitense York Capital. Lo storico edificio delle Poste di piazza Cordusio è stato acquistato da Starbunks di proprietà del fondo Blakstone. La sede Unicredit, inaugurata da poco tempo, è di proprietà del fondo cinese Fosun. Altri grandi investimenti stanno arrivando nel nuovo quartiere Sei Milano attraverso il fondo statunitense Varde mentre a Porta Nuova sta per essere concluso il quartiere residenziale China Investment. Il Sole24Ore calcola che nel decennio 2019-2029 i fondi immobiliari globali investiranno oltre 10 miliardi.

Il destino delle città è dunque in mano agli istituti di credito. Non sono le amministrazioni comunali a decidere sui destini delle città, ma è un sistema economico e finanziario connesso a livello globale.  La seconda discontinuità riguarda il taglio irresponsabile delle risorse economiche delle città, un tema molto caro ad Attac, che sta portando rapidamente – in assenza di urgenti rimedi – alla scomparsa del welfare urbano.

Il dominio economico e ideologico del neoliberismo è riuscito a demolire uno dei pilastri più importanti su cui si reggeva il welfare urbano e questa azione demolitrice non ha incontrato resistenze da parte della sinistra – anzi – con le leggi approvate dai loro governi è stata favorita. Il meccanismo ideologico utilizzato è stato molto efficace. Il debito di alcune aziende erogatrici di servizi che non possono essere attive (si pensi al comparto delle case popolari o ai trasporti urbani) è stato additato come la causa di tutti i mali. Invece di intervenire sulle vere cause delle eventuali disfunzioni o sprechi, è iniziata la grande stagione delle privatizzazioni e delle esternalizzazioni.  

Ad esempio, il tentativo di cancellare l’intervento pubblico nel settore degli alloggi pubblici viene da lontano. Nel 2009 il governo Berlusconi approva il “Piano casa” in cui viene prevista la costituzione del FIA “Fondo di investimento immobiliare” gestito dalla Cassa depositi e prestiti. Tutte le Regioni a guida centro sinistra – la stragrande maggioranza – non obiettano nulla e un ulteriore impulso a questa modalità di intervento viene data dal governo Renzi che con lo “Sblocca Italia” potenzia e favorisce in ogni modo l’accesso dei fondi immobiliari nelle trasformazioni urbane.

L’economia dominante pensa dunque di sanare i bisogni della fascia più povera della società alimentando un meccanismo dissipativo che aumenta il gigantesco stock immobiliare inutilizzato (7 milioni di alloggi vuoti in Italia). Non c’è alcuna logica nel capitalismo declinante, continuano ad applicare ricette che aggravano il morbo.

Nel 2009 la legislazione nazionale ratifica il capovolgimento culturale: nasce l’housing sociale invece delle case pubbliche e inizia la contesa tra istituti di credito e fondazioni bancarie per inserirsi nel mercato. L’offensiva neoliberista  si appropria del mercato dell’edilizia per le famiglie a basso reddito.  Per alimentare il fondo sull’housing sociale, oltre a Cassa Depositi e Prestiti, si inseriscono i colossi del credito, dalle Assicurazioni Generali a Unicredit, da Allianz a Intesa San Paolo. La macchina della privatizzazione del comparto delle case popolari sembrava destinata al trionfo. La crisi globale, nata proprio per l’eccessiva esposizione immobiliare iniziata nel 2008, cambia ogni orizzonte e il castello di carte crolla proprio quando il governo Berlusconi cercava attraverso il piano casa di mettere qualche toppa. Siamo oggi di fronte ad un generale impoverimento del ceto medio e ad una sempre più accentuata precarietà del lavoro dei giovani, dinamiche che rendono pressoché impossibile acquistare casa attraverso il meccanismo dell’housing sociale.

Il tragico bilancio della privatizzazione della città è conseguentemente un numero sempre più grande di famiglie in stato di disagio abitativo, la ricomparsa delle baracche, le tante occupazioni da parte di famiglie senza casa. Un dato ci dice molto di quanto accaduto: fino al 1990 venivano costruiti in media 18 mila case popolari all’anno. Negli anni ’90 il valore scende a 10 mila. Nel decennio 2000 – 2010 si è arrivati a poco più di 5 mila.  

La terza discontinuità riguarda l’omologazione del sistema commerciale che storicamente rendeva ogni città differente dall’altra e il dilagare della monocultura del turismo che svuota l’anima delle città storiche. Sul primo segmento economico della globalizzazione, è nota la progressiva cancellazione della rete del commercio diffuso a tutto vantaggio dei grandi gruppi internazionali. Auchan, Conad, Coop e pochi altri, per restare al caso italiano si dividono ormai la quota preponderante del consumo dei cittadini e ciò comporta che solo alcuni grandi fornitori di derrate alimentari possono beneficiare di contratti convenienti. I piccoli produttori sono tagliati fuori senza scampo.

Di identico devastante effetto è il caso del controllo del mercato turistico da parte dei grandi tour operator che sta rendendo le città storiche delle specie di fondali finti privi di abitanti, come ha ben centrato l’analisi di Salvatore Settis su Venezia. Proviamo a declinare gli effetti urbani causati dall’economia dominante nel caso di Roma, capitale e città con dimensioni demografiche più grandi dell’intero paese. Nel 2015 ci sono state oltre 40 milioni presenze turistiche e oltre all’accoglienza hanno alimentato anche il gigantesco sistema di somministrazione di pasti e bevande che ormai connota l’intero centro storico. Non siamo ancora arrivati alle punte veneziane,  ma Roma è divorata da quello stesso modello economico.

Per comprendere la discontinuità che si è prodotta, basta ripercorrere la storia della violenta trasformazione della città che si ebbe con l’esplosione delle attività terziarie negli anni ’70. Anche allora si produsse una forte richiesta di spazi per attività d’ufficio che – in mancanza di una seria politica urbanistica – aggredirono gli spazi residenziali. Alloggi abitati da famiglie furono sostituiti da attività terziarie e la popolazione residente iniziò a scendere vertiginosamente e i valori immobiliari in crescita per l’aumento della domanda causarono una ondata di espulsione della parte più povera della città. Quella sostituzione sociale mutò il tessuto sociale della città ma ha comunque mantenuto una sufficiente presenza demografica che garantiva la permanenza del tessuto commerciale e artigianale di vicinato.

Oggi si calcola (Marco D’Eramo, Il selfie del mondo, Feltrinelli editore, 2017) che siano almeno 24 mila gli alloggi gestiti da Airbnb, il grande veicolo globalizzato con cui si commercializza l’offerta di residenza per turisti. Quel numero ci dice che il fenomeno ha dimensioni quantitative inedite. Siamo passati da centinaia di alloggi che scomparivano per diventare uffici alle attuali decine di migliaia che diventano case vacanza. Ma è il processo qualitativo che preoccupa maggiormente. I giganteschi flussi turistici che stanno sconvolgendo le città sono infatti governati da imprese globalizzate che non hanno alcun rapporto con i luoghi di destinazione del turismo. Le città non hanno dunque più alcun rapporto con economie locali che garantivano la permanenza di identità. La monocultura turistica globalizzata sta distruggendo interi quartieri e città.

Roma, al pari delle grandi mete del turismo internazionale, è sottoposta a processi di gentrificazione sociale che svuotano la stessa vita urbana.  La gravità della situazione è testimoniata dal degrado dovuto alla “movida” notturna che molte aree sopportano. Interi quartieri una volta abitati da ceti popolari (si pensi al Pigneto lungo la via Casilina) sono diventati luoghi di divertimento mentre  quartieri più centrali, come ad esempio Trastevere, che mantenevano ancora – nonostante tutto – una identità residenziale sono ormai esclusivi contenitori del turismo globalizzato.

Alcune città, Barcellona ne è positivo esempio, pur avendo un fenomeno di sostituzione di residenze in alloggi turistici più modesto di molte città italiane, stanno mettendo in piedi politiche di contenimento del fenomeno della gentrificazione. E’ una strada da percorrere poiché non possiamo rischiare di cancellare la vita urbana di tante città. Ma è tuttavia una strada ancora difensiva, nel senso che cerca disperatamente di porre limiti ad un fenomeno che per sua natura è illimitato. Per contrastare il dilagare del turismo che si mangia le città occorre ricostruire un pensiero e le politiche pubbliche per riequilibrare la vita di quei luoghi.

Nel periodo della costruzione del welfare urbano, le città italiane hanno realizzato un imponente patrimonio immobiliare pubblico. Spesso questo stesso patrimonio è a rischio poiché l’economia dominante sta imponendo in tutti i paesi la loro svendita in favore dei grandi fondi di investimento globale. Mentre le città sono sottoposte a flussi crescenti di turismo di massa, la ricetta è dunque quella di cancellare la presenza pubblica, la sola che può riequilibrare la vita urbana. Così, sempre più spesso, quegli edifici una volta pubblici si aggiungono al numero degli alberghi a disposizione del circo turistico. Ecco allora la vera carta che i comuni possono tentare di imporre. Riqualificare e rivitalizzare il patrimonio immobiliare pubblico per reintrodurvi residenza popolare, per soddisfare le esigenze produttive di nuove imprese giovanili che non possono accedere al mercato immobiliare libero perché troppo caro. Dobbiamo insomma tentare di reintrodurre la complessità urbana in luoghi che la stanno perdendo a causa di un’economia senza regole.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 40 di Maggio – Giugno 2019. “Una città per tutti

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