di Pino Cosentino, da il granello di sabbia n.13, giugno 2014
Daniela M. cita il saggio di Nadia Urbinati, Democrazia in diretta, per attirare l’attenzione sulla funzione fondamentale dell’informazione e sull’uso del sorteggio per scegliere chi andrà a ricoprire determinate posizioni di governo. Daniela è entusiasta del sorteggio, condivide l’idea di Urbinati, secondo cui “il sorteggio è stato ed è ancora [vedi Islanda 2009, 1.500 cittadini sorteggiati per scrivere la nuova costituzione] una delle forme di sovversione del potere consolidato, anzi l’espediente è usato proprio per sovvertire ed evitare il consolidamento del potere nelle mani di qualcuno…”.
L’importanza dell’informazione come prerequisito per la partecipazione e l’uso del sorteggio: due temi in un certo senso contrapposti. Il primo allude alla competenza (informazione, conoscenza) che dovrebbe essere alla base dei processi decisionali, e quindi condizione per poter essere ammesso nel numero dei decisori effettivi. Il secondo invece sgombra il campo da tutto ciò, afferma che l’esercizio del potere, almeno in certi ambiti, è un diritto di tutti i cittadini, in quanto tali, prescindendo dai livelli di competenza.
L’obiezione più ricorrente mossa alla democrazia partecipativa (DP) è di consentire a chiunque voglia di partecipare ai processi deliberativi. Sostenere l’uso del sorteggio per certe cariche esecutive, o per la formazione di assemblee legislative (come avvenuto in Islanda per la scrittura della nuova costituzione) equivale a rilanciare. Nessun accertamento/ valutazione di requisiti è richiesto, al punto che la scelta delle persone incaricate è affidata al caso. Noto per inciso che il sorteggio appartiene all’area della rappresentanza, in quanto metodo per scegliere rappresentanti, non per esprimere decisioni (area della partecipazione). Ma come vedremo si può invece immaginare che il sorteggio sia la leva per trasformare la democrazia rappresentativa in partecipativa, o diretta.
Ed è per un caso davvero singolare che la mail di Daniela abbia preceduto di poco quella, lunga e articolata, di Fabrizio. Sono costretto, per ragioni di spazio, a sintetizzare all’estremo il suo ragionamento. Mentre Daniela si appoggia a Nadia Urbinati, Fabrizio fa riferimento a Bernard Manin, Principi del governo rappresentativo.
Secondo Fabrizio, non ha senso affiancare organismi partecipativi e organismi rappresentativi per formare un sistema politico di democrazia partecipativa, poiché si possono dare solo due casi:
1) la rappresentanza mantiene le caratteristiche attuali e fatalmente prevarrà sulla partecipazione, restando il decisore di ultima istanza (oltre che un corpo separato dalla società, con propri interessi particolari) e allora non si potrà parlare di DP. Oppure
2) la rappresentanza cambierà natura, diventando un corpo di portavoce transitori, senza privilegi né status particolari, sottoposti al controllo degli elettori, i quali possono revocarli in ogni momento (quindi CON VINCOLO DI MANDATO) e con limiti rigorosi di permanenza in carica. In questo secondo caso, definibile più propriamente come “democrazia diretta”, il metodo più razionale di scelta dei rappresentanti è il sorteggio. Il motivo per cui, nello schema di Fabrizio, DP e democrazia diretta sono sinonimi dovrebbe essere abbastanza chiaro.
Il ragionamento è interessante e aiuta a chiarire i termini (partecipazione, rappresentanza, DP). Però non mi convince: al di là di ciò che appare, vedo ulteriori differenze tra lo schema 1 e lo schema 2. Il primo è evolutivo, e introduce una strategia, mentre il secondo presenta un modello, un risultato, un punto di arrivo sul quale non possiamo dare alcun giudizio di verità (o falsità), al massimo possiamo dire “mi piace” o “non mi piace”.
Se, come sembra, è un modello, dico la verità: non mi entusiasma. Si costruisce la partecipazione, ma le decisioni sono prese da qualcun altro, eletto o sorteggiato. Questi eletti o sorteggiati avranno comunque in mano le leve del potere. Cosa impedirà loro di ricostituire, un pezzo dopo l’altro, le condizioni che ne farebbero un ceto privilegiato? Risposta: la società, con la sua organizzazione partecipativa.
Ma a quel punto cosa se ne faranno delle nostre teorie? Quando la società sarà così forte e matura, deciderà da sé quale sistema politico adottare. Se invece lo schema 2 è una strategia, vorrei che fosse enucleata e spiegata. Al momento non la vedo, mentre riesco a vederla a partire dallo schema 1. Solo un accenno su questo. Mi pare che non si possa fare a meno, per vedere una strategia, di includere nel quadro un altro elemento, un elemento doppio: da un lato i beni comuni: dall’acqua alla scuola, dallo spazio urbano al patrimonio genetico; dall’altro la comunità che se ne prende cura e li gestisce. Questa è la radice della situazione attuale: un popolo non solo diviso, egemonizzato dalla cultura dei ceti privilegiati, che ha perso soprattutto il legame con situazioni concrete di vita collettiva. Un popolo le cui divisioni si collocano solo in piccola parte nella sfera del vissuto e per lo più appartengono invece alla sfera dell’opinione. Si hanno opinioni politiche nello stesso modo disimpegnato con cui si hanno opinioni sull’arte contemporanea, sull’eleganza, sullo sport, sull’ultimo film…
Di qui può/deve partire un ragionamento sul da farsi, oggi.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 30 di Settembre-Ottobre 2017: “Democrazia Partecipativa”