Contro i venti di guerra, per la pace e la democrazia

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di Alessandra Algostino (giurista costituzionalista)

Riarmo, aumento delle spese per la difesa, normalizzazione della guerra, clima bellico: la spirale della guerra sta avvolgendo le democrazie e il futuro. Si diffonde come unico orizzonte possibile un mostruoso “se vuoi la pace, prepara la guerra”.

Con la guerra, con il genocidio (la Corte internazionale di Giustizia il 26 gennaio 2024 ha riconosciuto l’esistenza di un “rischio plausibile” di genocidio) e i crimini di guerra compiuti da Israele a Gaza, scompare il senso di umanità; l’applicazione selettiva del diritto internazionale, il non rispetto nemmeno del suo nucleo minimo, il diritto internazionale umanitario in guerra, consegnano il mondo ad uno stato di natura hobbesiano. E la guerra ridisegna la geopolitica degli Stati e del mondo ma rimodella anche la democrazia; comporta «una certa dose di militarizzazione della democrazia» (Asor Rosa).

Piero Calamandrei nel 1945 scrive: «la dottrina democratica non è fatta per arrestarsi e per concludersi alle frontiere nazionali: è verità ormai troppe volte tragicamente scontata che totalitarismo e dittatura all’interno significano inesorabilmente nazionalismo e guerra all’esterno»; si può chiosare: e viceversa. Guerra ed emergenza sono alleate del processo di verticalizzazione del potere, di ormai lungo corso e nella chiusura degli spazi politici.

La logica della guerra, con la militarizzazione del discorso pubblico, travolge dissenso e pluralismo, ovvero quel conflitto che della democrazia costituisce l’essenza. La propaganda bellica espelle, tacciandole di tradimento, le opinioni non allineate, scagliandosi contro ogni contestualizzazione e tentativo di lettura all’insegna della profondità della storia e della complessità. La semplificazione binaria amico/nemico, in chiave schmittiana, non appartiene all’orizzonte di una democrazia conflittuale e pluralista. La guerra tinge con un’aura etico-eroica il processo di criminalizzazione e delegittimazione del nemico, in un crescendo di omologazione culturale, distrazione dal conflitto sociale e occultamento del disastro ambientale.

A essere investita dalla logica bellica, in una parola, è la democrazia, la nostra democrazia: pluralista, conflittuale e sociale. A essere travolto è il senso del limite, che del costituzionalismo ne è l’essenza, con la previsione di vincoli, divisioni ed equilibri, con quanto ne consegue in termini di concentrazione del potere, ma anche del limite ad una competitività che si esprime nella forma estrema della violenza. Il Parlamento, ça va sans dire, prontamente arruolato, con un self-restraint contrario al suo ruolo, riduce il proprio intervento al conferimento di deleghe in bianco al Governo e si adagia ad ascoltare muto le informative.

A cadere sotto i venti di guerra è la libertà – effettiva – di manifestazione del pensiero, nel suo essere libertà di critica, di protesta e di dissenso; come scriveva Gramsci: i «discordi» sono disposti «in un pulviscolo individuale e disorganico» e una sola forza, controllando gli «organi dell’opinione pubblica: giornali, partiti, parlamento», modella «l’opinione e quindi la volontà politica nazionale».

L’orizzonte della guerra mobilita e insieme narcotizza le coscienze; reprimendo, delegittimando e criminalizzando coloro che si ostinano a esercitare lo spirito critico. Pensiamo all’accusa di “antisemitismo”: chiaro esempio di mistificazione e strumentalizzazione, che si inserisce nella visione di un mondo alla rovescia, dove chiedere il rispetto del diritto internazionale è sovversivo, dove ragionare di principio pacifista è un attentato ai valori democratici, dove manifestare è una concessione, dove essere antifascisti è una colpa.

La democrazia è compagna della pace, non della guerra, è una forma di Stato che si fonda sull’espressione pacifica dei conflitti, è il terreno nel quale i diritti vengono garantiti e si perseguono emancipazione e giustizia sociale; la guerra si accompagna alla sopraffazione, a violazioni dei diritti, alla diseguaglianza e al dominio.

La nostra Costituzione, nel costruire una democrazia, armonicamente, sancisce il principio pacifista, rinnegando e rifiutando il fascismo con la sua violenza, la sua guerra di aggressione, la sopraffazione, la violazione dei diritti; garantisce i diritti di libertà e i diritti sociali. Ed è a questi ultimi che devono essere destinate le risorse, per concretizzare il cuore del progetto costituzionale, l’art. 3, c. 2, il «pieno sviluppo della persona umana» e l’«effettiva partecipazione»; non alla difesa, alla NATO, all’industria militare.

A fronte delle oscurità della guerra, occorre ribadire la forza del legame fra pace e democrazia e il senso del riconoscimento del principio pacifista.

L’articolo 11 della Costituzione sancisce gli obiettivi di pace e giustizia come fini che attraversano trasversalmente le tre proposizioni dell’articolo e costituiscono la cornice nella quale si inserisce armonicamente il ripudio della guerra.

Il ripudio – forte – della guerra (basti ricordare che il termine «ripudia» fu scelto dai costituenti rispetto a «condanna» e «rinunzia» perché più «energico») come «strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» lascia in vita solo l’eccezione della guerra di legittima difesa; in coerenza con lo Statuto delle Nazioni Unite che, nell’intento di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra», prevede, all’art. 51, il solo diritto di autotutela e precisa: «fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale». E, visto il massacro da parte di Israele della popolazione di Gaza, occorre precisarlo: il diritto di autotutela deve rispettare in ogni caso i confini del diritto internazionale.

Il ripudio della guerra è, quindi, inscindibilmente legato all’azione per la pace: dunque, ne consegue per l’Italia l’obbligo di perseguire il “cessate il fuoco” e una soluzione pacifica, che rispetti il diritto internazionale, in Ucraina come nel conflitto israelo-palestinese.

Pace implica la responsabilità della pace e, dunque, significa altresì perseguire una politica di disarmo e non contribuire alle guerre inviando armi, con la corresponsabilità, se del caso, in crimini di guerra o genocidio.

Il principio pacifista, e, in esso, il ripudio della guerra, rappresentano un controlimite a fronte di qualsivoglia consuetudine internazionale e obbligo internazionale volti ad estendere l’ambito della legittima difesa (rispetto all’attacco armato ad un territorio), vuoi introducendo l’ossimoro della guerra umanitaria o in nome della democrazia, vuoi l’aggressione mascherata della guerra preventiva, vuoi ricorrendo ad una interpretazione “estensiva” della Responsibility to Protect.

La ricerca della pace, dunque, come fine da perseguire, per non accelerare la caduta nell’autocrazia, che anni di rivoluzione passiva stanno sostituendo alla democrazia, per mantenere il senso dell’umano, per rendere possibile un futuro.

La pace richiama l’essenza profonda del costituzionalismo come limitazione del potere, un potere che nella guerra si esprime nella più cruda e violenta materialità, e, a fronte della «morte universale» (Manifesto Russel-Einstein, 1955), evoca altresì la ricerca della pace come espressione di una hobbesiana autoconservazione dell’uomo che usa la ragione: la ragione che si sta perdendo nella «vertigine della guerra» (Caillois).

Immagini: peacelink.it

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 53 di Maggio – Giugno 2024: “Chi fa la guerra non va lasciato in pace

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