Politiche liberiste: Comuni al capolinea?

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di Simona Repole (esperta di bilancio comunale e attivista)

Basta dare uno sguardo agli atti dell’undicesima Conferenza sulla finanza e l’economia locale dell’IFEL, la Fondazione dell’ANCI – Associazione Nazionale dei Comuni – che si è conclusa il 26 gennaio scorso, per farsi un’idea dell’attuale situazione finanziaria dei Comuni. Il quadro è composito e complesso, visioni ottimistiche si alternano a posizioni più caute e preoccupate. I dati, per la verità, non lasciano scampo: le politiche che per anni hanno messo al centro l’austerità hanno ampliato il solco delle diseguaglianze territoriali e indebolito drammaticamente i Comuni che, in molti casi, non riescono più a svolgere le funzioni assegnate loro dalla Costituzione e, persino, a gestire le maggiori risorse pubbliche oggi disponibili. Insomma, dopo il danno pure la beffa. Ma andiamo con ordine.

Le politiche di austerità, inaugurate nel 2008 per gestire la crisi globale, hanno imposto alla spesa comunale una stagione senza precedenti di tagli inesorabili e vincoli finanziari stringenti che hanno comportato una riduzione sistematica dei trasferimenti statali. Agli Enti Locali sono stati sottratti circa 13 miliardi di euro nel periodo 2009-2019, anni in cui il rigore dei conti e la riduzione del debito pubblico sono state le priorità dell’agenda politica europea e nazionale, imposte anche e soprattutto ai Comuni.

Il meccanismo più penetrante e opaco dell’austerità è stato senza dubbio, almeno a livello locale, il patto di stabilità interno. Dal 2010 al 2015 i Comuni hanno dovuto conseguire una differenza positiva tra entrate e spese; una somma, stabilita dallo Stato e ogni anno sempre più elevata, sottratta alle politiche locali e offerta all’Europa per dimostrare il rispetto dei vincoli simbolo dell’austerity europea: rapporto deficit/PIL inferiore al 3% e rapporto debito/PIL inferiore al 60%. Il mancato raggiungimento di questo obiettivo prevedeva sanzioni pesantissime a carico dei Comuni che, per non rischiare, risparmiavano più del dovuto sottraendo ulteriori risorse alle proprie comunità.

Negli stessi anni sono stati introdotti una miriade di ulteriori vincoli che, oltre a sottrarre risorse, hanno minato l’autonomia organizzativa e gestionale dei Comuni. Il blocco delle assunzioni e i vincoli della spesa di personale, ad esempio, hanno costretto i Comuni ad esternalizzare la gestione di servizi pubblici che non erano più in grado di seguire con i propri dipendenti. Pur di rispettare il patto di stabilità, i Comuni hanno ridotto drasticamente la spesa di investimento o hanno venduto il proprio patrimonio immobiliare per garantire interventi minimi sul territorio (manutenzione delle scuole, strade, interventi su aree a rischio idrogeologico). Oppure hanno scelto d’innalzare – anche fino al massimo consentito – il prelievo fiscale locale, l’unica possibilità rimasta a disposizione per salvaguardare i servizi pubblici e compensare la progressiva ritirata dello Stato dal finanziamento dei territori.

Nel 2016, è subentrato il pareggio di bilancio e gli equilibri di bilancio che, pur impattando meno perché impongono l’uguaglianza tra entrate e spese di bilancio, hanno continuato a perseguire il contenimento della spesa locale. Ma non è bastato, c’è stata anche la riforma della contabilità. A partire dall’esigenza di armonizzare i bilanci degli enti locali e renderli confrontabili, l’armamentario dei vincoli che scoraggiano la spesa si è arricchito ulteriormente. Un esempio è il Fondo Crediti di Dubbia Esigibilità, un meccanismo che obbliga i Comuni ad accantonare – ovvero non spendere – una somma corrispondente ai crediti vantati nei confronti di enti pubblici, cittadini e imprese, per coprire il rischio della loro mancata riscossione. Il Fondo oggi ammonta ad oltre 5 miliardi di euro e ha ridotto, in egual modo, la capacità di spesa di tutti i Comuni, con ricadute davvero pesanti sugli Enti che partivano da situazioni finanziarie già molto critiche.

Dopo un periodo così lungo di sottrazione sistematica di risorse, d’improvviso il quadro cambia. I Comuni vengono letteralmente travolti da una mole straordinaria di trasferimenti statali stanziati per attenuare le conseguenze dell’emergenza sanitaria sul tessuto economico e sociale. Parliamo di circa 11,5 miliardi di euro, tra il 2020 e il 2021, che i Comuni dovevano spendere tassativamente entro l’anno di assegnazione, pena un taglio dei trasferimenti negli anni successivi. Altro che principio costituzionale della leale collaborazione tra livelli istituzionali: nel giro di pochi mesi siamo passati dal “se spendi ti punisco” al “se non spendi ti punisco”. Tutto d’un tratto è stato riscoperto il ruolo strategico dei Comuni quali presidi territoriali indispensabili che, attraverso i propri bilanci, garantiscono alcuni diritti fondamentali dei cittadini, compreso il diritto alla città. E così è arrivato anche il PNRR e i fondi strutturali UE, circa 10,6 miliardi di euro fino al 2029 per fare investimenti. Per accedere a queste risorse straordinarie, però, i Comuni devono impegnare molte delle loro forze ordinarie per partecipare a bandi di gara molto complessi.

I più ottimisti pensano che questi fondi straordinari risolveranno tutti i problemi dei Comuni che, a questo punto, potrebbero anche smettere di lagnarsi delle loro difficoltà e rimboccarsi le maniche per partecipare ai bandi e spendere. L’importante è portare all’Europa il risultato assegnato ai Sindaci: 6 fra milestones e target quest’anno e 60 obiettivi nel periodo di durata del Piano. Gli osservatori più cauti, prudenti e preoccupati, e io mi metto tra questi, pur valutando positivamente le maggiori risorse assegnate ai Comuni, sono convinti che tutto ciò non solo non sia sufficiente, ma possa alla fine essere minaccioso. Mi limito solo ad alcune riflessioni. Gli obiettivi perseguiti e i risultati attesi dal PNRR sono già rigidamente definiti, quindi sono scelte imposte ai territori. Le opere realizzate richiederanno spesa corrente aggiuntiva – che i Comuni non hanno nei propri bilanci – per gestire i nuovi servizi. I tempi del PNRR non lasciano il ben che minimo spazio per condividere i progetti con la cittadinanza, quindi è probabile che, in molti casi, gli interventi realizzati avranno poco a che fare con i bisogni delle comunità. La gestione di queste risorse richiede la disponibilità di un patrimonio di competenze, conoscenze e professionalità che le politiche liberiste hanno depauperato in favore di una privatocrazia che non ha subito alcun vincolo.

A questi elementi di criticità, si aggiunge un ulteriore fonte di preoccupazione. Se la politica non sarà in grado di intervenire sul complesso delle norme che guidano la finanza locale sciogliendo nodi strutturali ancora irrisolti – a partire dalla stabilità delle risorse comunali ordinarie – c’è il rischio che le diseguaglianze territoriali si accentuino. È molto probabile infatti che senza una effettiva perequazione finanziaria e infrastrutturale, i Comuni già più ricchi avranno l’opportunità di accrescere la propria spesa nei prossimi anni, ma al prezzo di perseguire obiettivi eteronomi, non decisi dalle comunità locali, realizzando solo un apparente diritto alla città, sempre più conforme ai modelli sociali neoliberali. I Comuni già più poveri, invece, allungheranno le fila degli enti deficitari o in disavanzo e attenderanno in coda l’ennesimo intervento straordinario dello Stato per realizzare un diritto di gran lunga affievolito alla città.

Foto: Attac Torino 

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 51 di Gennaio-Marzo 2023: “Riprendiamoci il Comune

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