L’asilo in Europa: da diritto a concessione

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di Gianfranco Schiavone (estratto dalla prefazione del libro “Respinti” di Duccio Facchini e Luca Rondi, Altreconomia Edizioni)

[…] L’Europa ha scelto, con responsabilità che non va attribuita solo ai partiti nazionalisti e sovranisti ma investe l’intera società europea, di adottare decisioni politiche in aperta violazione con il diritto d’asilo come si era sviluppato nel diritto internazionale a partire dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951 e nello stesso diritto dell’Unione.

Il cuore del diritto d’asilo consiste nel diritto di chiedere protezione a uno Stato il quale ha l’obbligo di non respingere il richiedente verso un luogo dove la sua vita possa essere minacciata e possa subire trattamenti inumani e degradanti. Senza il rispetto di questo principio di fondo e di precise garanzie giuridiche verso tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio, in frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito degli Stati membri, il diritto d’asilo cessa di esistere anche se formalmente non viene cancellato dal corpus delle norme.

Le strategie che l’Unione europea ha messo in atto a partire dal 2015 ad oggi per comprimere de facto in modo illegittimo il diritto d’asilo ed eludere i propri obblighi legali poggiano su tre pilastri:

1. Esternalizzazione dei controlli di frontiera e delle procedure di asilo in Paesi terzi.

Risale agli anni Novanta il tentativo di diversi Stati maggiormente coinvolti nella gestione dei flussi migratori di creare un approccio extraterritoriale alle politiche rivolte ai rifugiati e ai richiedenti asilo politico volto a sperimentare politiche di “non ingresso” nel territorio.

L’esternalizzazione del controllo delle frontiere e del diritto di asilo è una nozione complessa sulla quale non v’è ancora una definizione univocamente condivisa. Quella che tuttavia ritengo più esaustiva è la seguente: “L’esternalizzazione del controllo delle frontiere e del diritto dei rifugiati può essere definita come l’insieme delle azioni economiche, giuridiche, militari, culturali, prevalentemente extraterritoriali, poste in essere da soggetti statali e sovrastatali, con il supporto indispensabile di ulteriori attori pubblici e privati, volte ad impedire o ad ostacolare che i migranti (e, tra essi, i richiedenti asilo) possano entrare nel territorio di uno Stato al fine di usufruire delle garanzie, anche giurisdizionali, previste in tale Stato, o comunque volte a rendere legalmente e sostanzialmente inammissibili il loro ingresso o una loro domanda di protezione sociale e/o giuridica”.

In quanto insieme di misure anche molto diverse tra loro, l’esternalizzazione è un fenomeno che assume forme molto diverse nei vari Paesi nei quali è attuata e si modifica nel tempo anche in modo molto veloce. Una forma che ritengo particolarmente grave (e subdola) di esternalizzazione è quella legata agli interventi che espressamente perseguono l’obiettivo di ostacolare i rifugiati nella prosecuzione del loro viaggio verso un Paese diverso da quello in cui si trovano provvisoriamente e che non può o non vuole offrire loro una protezione adeguata. Nonostante sia intrisa di illogicità è infatti estremamente diffusa una narrazione retorica che afferma che il “vero” rifugiato è colui che si ferma sempre nel primo Paese confinante a quello di origine dal quale è fuggito e che se invece la medesima persona prosegue il viaggio verso altri Paesi attraversando diversi confini, la sua condizione si configuri piuttosto come quella di migrante in cerca di fortuna invece che quella di persona in cerca di protezione. È un dato evidente e consolidato nella letteratura scientifica che la maggioranza dei rifugiati cerca protezione il più vicino possibile al Paese di origine o perché in attesa di parenti e famigliari o perché cerca in tal modo di mantenere legami con il proprio Paese, avendo l’obiettivo di farvi rientro appena possibile. Tuttavia ciò non accade in molti altri casi, soprattutto quando non vi sono ragionevoli prospettive di rientro e/o la protezione che si ottiene nel Paese di primo arrivo è inadeguata.

Una buona politica internazionale, specialmente in ambito Ue, dovrebbe sostenere con misure economiche e di formazione alla gestione dei sistemi di asilo i Paesi più esposti alle crisi ponendosi nello stesso tempo l’obiettivo di evitare che tali Paesi ospitino un numero abnorme di rifugiati. […]

2. Isolamento dei rifugiati in campi di confinamento presso Paesi terzi (e in parte nella stessa Ue).

Se non v’è dunque alcun piano europeo per una più equa redistribuzione dei rifugiati dai Paesi più esposti e se, parallelamente, non ve n’è alcuno per la realizzazione di vie sicure di accesso per asilo, dove finisce tutta l’umanità in eccesso che l’Europa rifiuta e respinge?

Rimane, come si è detto, in Paesi-contenitori di rifugiati e che non possono o non vogliono assicurare ai rifugiati stessi né una effettiva protezione giuridica né un percorso di integrazione sociale. Masse più o meno grandi di persone da collocare in un luogo che garantisca un loro adeguato contenimento e isolamento. Da tali finalità nasce la logica dei cosiddetti campi di accoglienza ma che, a ben guardare, svolgono un’altra funzione, quella di campi di confinamento dove si fornisce la minima sopravvivenza materiale ai rifugiati ma nello stesso tempo li si segrega, in una dimensione di sospensione – a tempo indefinito – dei loro diritti fondamentali. Contrariamente a come vengono presentati e giustificati – in veste di realtà che sorgono per la necessità di rispondere a situazioni contingenti ed eccezionali – i campi di confinamento sono invece espressione della volontà di usare specifiche strutture per isolare per lungo tempo i richiedenti asilo e i rifugiati e porre scientemente le persone “accolte” in condizioni degradanti, al fine di scoraggiare gli arrivi in quell’area o di perseguire altri obiettivi riconducibili a finalità politiche interne e/o internazionali.

[sul confinamento abbiamo chiesto a Gianfranco Schiavone un approfondimento, anche a seguito di un recente convegno sul tema, che pubblichiamo in altro articolo di questo numero, NdR]

3. Impedimento all’accesso al territorio europeo per chiedere asilo attraverso respingimenti e riammissioni a catena sistematici e illegali.

La violazione del principio di non-respingimento c’è sempre stata ed è il nodo più delicato del sistema di asilo; fin qui nulla di nuovo. Ciò che però è emerso nell’ultimo decennio è profondamente diverso in quanto:

  1. i numeri dei respingimenti alle frontiere esterne sono aumentati in modo esponenziale, seguendo una curva di crescita sempre più rapida;
  2. all’aumento dei respingimenti alle frontiere esterne si è affiancata una rivitalizzazione delle cosiddette riammissioni ai confini interni dell’Unione (di cui bene tratta il capitolo 5), spesso abilmente organizzate con un meccanismo a catena al fine di produrre il medesimo effetto, ovvero quello di far uscire dallo spazio europeo il cittadino straniero, al quale viene impedito, anche in più Paesi, di presentare la domanda di asilo;
  3. non potendo più, in ragioni delle loro dimensioni macroscopiche, negare l’esistenza di un sistema di respingimenti illegittimi operante su vasta scala, è stata predisposta una strategia bicefala per rendere accettabile nella comunicazione sociale e politica quello che è in contrasto con principi fondamentali dello Stato di diritto.

Il primo volto di questa nuova strategia che cerca di aggirare la sentenza Hirsi Jamaa e altri [1], con la quale l’Italia viene condannata nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per i respingimenti diretti effettuati dall’Italia nelle acque internazionali verso la Libia, è rappresentata da ciò che possiamo definire il respingimento per procura. Si tratta del sostegno economico, logistico e fornito in termini di addestramento di personale, attuato dall’Europa, e dall’Italia in particolare (a questa pagina orrida della nostra Repubblica è dedicato interamente il capitolo 4) nei confronti dei diversi governi libici che si sono succeduti nell’ultimo decennio affinché impediscano la fuga dei rifugiati e li riconducano in luoghi dove vengono sottoposti a torture e trattamenti inumani e degradanti (anche se i campi di detenzione libici fossero migliori resta il profilo di illegittimità nel sostenere, finanziare e promuovere i respingimenti).

Il secondo volto della nuova strategia è quello di trasformare ciò che è illegale in legale, tramite lo sviluppo di una sorta di nuova ideologia che, mutuando il paradosso della “democrazia illiberale” di Orbán potremmo definire una “legale illegalità”. I respingimenti degli stranieri cui viene impedito di chiedere asilo alle frontiere dell’Unione, sia terrestri (Croazia, Ungheria, Polonia in particolare) sia marittime (Grecia) vengono oggi praticati in modo sistematico in sprezzo di ogni procedura ed applicando un elevatissimo livello di violenza, senza tuttavia curarsi troppo di nasconderli e confidando in un accomodante silenzio generale. Una strategia ardita che ha incontrato qualche resistenza ma che (e questo ne è l’aspetto più inquietante) ha incontrato anche molti torbidi consensi e silenzi diffusi sia in campo politico che accademico.

Si è così giunti ad attuare condotte illegali estreme, come quelle sul confine tra Polonia e Bielorussia che non solo non vengono condannate ma vengono apertamente appoggiate dalle istituzioni europee e in primis dalla attuale Commissione, che sta perseguendo un disegno di scardinamento del sistema di asilo in Europa la cui finalità – sperando di sbagliare – mi appare sempre più chiara. Non, come poteva sembrare ad inizio della legislatura, un tentativo di trovare a tutti i costi una sintesi politica al ribasso per proseguire nella riforma del sistema europeo di asilo e ottenere le modifiche dei testi più caldi, ovvero le Direttive procedure e qualifiche (da trasformare in regolamento) e il regolamento Dublino III, ma qualcosa di diverso e di infinitamente più pericoloso: mettere in discussione il diritto d’asilo nella sua configurazione giuridica attuale, sviluppatasi a partire dal secondo Dopoguerra, quale diritto fondamentale della persona che gli Stati sono chiamati a riconoscere e a tutelare in ogni circostanza e senza eccezioni di sorta. L’obiettivo sembra invece quello di riportarlo a una dimensione pre-moderna di mera concessione arbitraria da parte del potere sovrano a singoli e gruppi.

Spaventata dalle crisi che la circondano e forse priva di una classe politica idonea a gestire una sfida storica complessa ma affatto impossibile come è quella di dotarsi di strumenti di programmazione adeguati a gestire l’aumento del numero dei migranti forzati, l’Europa sembra avere scelto di rinnegare il diritto di asilo e di adottare persino la strada della aperta violenza da praticare “legittimamente” verso persone inermi. Lo Stato di diritto in Europa nella seconda decade del XXI secolo si sta in tal modo fortemente indebolendo. La drammatica guerra scoppiata in Ucraina, quindi su suolo europeo, a seguito dell’invasione da parte della Russia, e l’attuale gestione della crisi degli sfollati dal Paese (il maggior esodo che ci sia stato nella Ue dal 1945) di cui il volume tratta nel suo ultimo importante capitolo potrebbe, paradossalmente, segnare una svolta positiva, dimostrando che il vecchio continente è in grado di gestire le reali emergenze e di garantire un livello adeguato di protezione a chi ne ha bisogno? A metà aprile 2022, quando questo libro va in stampa, è arduo azzardare una risposta ma l’applicazione, per la prima volta, della direttiva sulla protezione temporanea adottata nel lontano 2001, e che dopo 21 anni stava per essere cancellata senza essere stata mai attuata, dà qualche speranza.

[1] Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 23 febbraio 2012 – Ricorso n. 27765/09 – Hirsi Jamaa e altri c. Italia

Foto : Altreconomia

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 50 di Giugno-Luglio 2022: “Guerra e migranti, guerra ai migranti

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