di Geraldina Colotti
“Giuro davanti al mio popolo e a questa moribonda costituzione che promuoverò le trasformazioni democratiche necessarie affinché la Repubblica nuova abbia una Carta Magna adeguata ai nuovi tempi”. Con queste parole, Hugo Chavez diventa presidente del Venezuela, il 2 febbraio del 1999. E annuncia il suo inedito stile di governo. Il 6 dicembre del 1988 è stato eletto con il 56,2% dei voti. Una sorpresa per l’establishment abituato a un’asfittica e rituale alternanza tra centro-destra e centro-sinistra e a forti livelli di disaffezione elettorale. Irrompe allora sulla scena un’alleanza inedita, un nuovo blocco sociale, variegato e composito, che ha catalizzato la protesta contro la corruzione, i tagli alla spesa sociale e la svendita del paese, ma contiene anche una nuova proposta: basata su una nuova indipendenza, sul riscatto sociale degli esclusi e su un’ardita dialettica che incorpora le forze militari “bolivariane” nella società.
Proprio gli esclusi, infatti (quella “plebe” composta dai poverissimi delle periferie, dagli indigeni, dagli afrodiscendenti, dalle donne, dai marginali) costituiranno l’ossatura del “proceso bolivariano” rappresentato nella nuova costituzione: uniti agli operai, agli studenti, ai militari progressisti e a quelle fasce di piccola borghesia impoverita dalle politiche economiche modello Fmi. La discussione per l’Assemblea costituente, che porterà alla nuova Carta magna, rimette in moto il paese. Il 15 dicembre del 1999, durante l’alluvione che provocherà la “tragedia del Vargas”, la Costituzione viene approvata con 71,78% dei voti.
Inquadra il funzionamento di una repubblica presidenziale unicamerale, basata sull’equilibrio di 5 poteri. Ai tradizionali tre delle democrazie rappresentative (legislativo, esecutivo e giudiziario) ne aggiunge altri due: il potere cittadino e quello elettorale. Il Tribunal Supremo de Justicia (Tsj) vigilerà al mantenimento dell’equilibrio, affinché nessun potere prevalga sugli altri.
Una costituzione declinata nei due generi, che contempla un vasto spettro di diritti, e stabilisce l’impianto per la ripresa di sovranità nazionale e l’attacco al latifondo. Prefigura l’articolazione di un doppio movimento, dal basso e dall’alto per modificare dall’interno l’architrave del vecchio stato borghese che non è stato sepolto da una rivoluzione di stampo novecentesco. Un doppio movimento che accompagna tutt’ora il cammino del proceso bolivariano verso la transizione al socialismo, non senza problemi.
La nuova Costituzione contiene almeno 70 articoli che promuovono la partecipazione cittadina in diversi settori del paese e molti fanno riferimento alla partecipazione popolare. Si individua il quadro che porterà all’istituzione dei Consigli comunali e poi alle comunas. A ben vedere, si riparte dall’idea di riqualificare attraverso il “potere popolare”, esperienze che, come nella costituzione italiana o – maggiormente – svizzera, articolano il funzionamento regionale e comunale. L’orizzonte è quello dei soviet, la scommessa è quella di sperimentare nuovi rapporti tra municipalismo e potere centrale.
Una Costituzione molto avanzata, che promette di non rimanere sulla carta, come sovente è accaduto in America latina. Negli anni seguenti, altri due paesi si metteranno sulla stessa strada, Bolivia e Ecuador. Anche per loro, quella di un’assemblea costituente, di un nuovo patto sociale dettato dall’emergere di soggetti prima non rappresentati, diventa una promessa-chiave. Un obiettivo perseguito, anche adesso, dalle classi popolari di altri paesi latinoamericani, che cercano uno sbocco strutturale a problemi incrostati e a “democrazie malate”. Uno sbocco partecipato e condiviso, non imposto dall’alto con alchimie di partito, decise al chiuso delle stanze.
Nel 2005, diventa presidente della Bolivia un indigeno aymara, sindacalista dei cocaleros, Evo Morales. Il 25 gennaio del 2009, una nuova costituzione viene approvata da circa il 60% della popolazione. Un anno prima, nel 2008, era stata votata dal 63,93% quella dell’Ecuador: sotto la presidenza dell’economista Rafael Correa, eletto il 4 dicembre del 2006 con il 56,67%, sull’onda di grandi manifestazioni di sfiducia al sistema politico vigente.
Paesi e contesti storici diversi, ma un unico continente, in cui Chavez ha rinnovato il sogno di Simon Bolivar, quello della “Patria Grande”. Una nuova indipendenza latinoamericana, nel ciclo di governi progressisti che ha interessato anche Argentina e Brasile. Traspare così, nei tre testi costituzionali un’identica preoccupazione: ridefinire il rapporto tra sovranità nazionale e integrazione regionale, in una nuova relazione volta al sud e all’interscambio solidale. Il Venezuela lo stabilisce nell’articolo 153: non solo la Repubblica “promuoverà e favorirà l’integrazione latinoamericana e caraibica, verso la creazione di una comunità delle nazioni”, ma le norme e i trattati approvati “nel segno degli accordi di integrazione verranno considerati parte integrante dell’ordinamento vigente”.
Prima di assumere l’incarico, Chavez aveva compiuto un viaggio a Cuba, in Europa e a Washington, dove si era riunito con l’allora presidente Bill Clinton, a cui aveva promesso di mantenere buone relazioni fra i due paesi: relazioni da pari a pari, e perciò insopportabili. Dopo aver constatato che Chavez non era addomesticabile, la Cia riprese a fomentare la natura golpista dell’opposizione venezuelana: una caratteristica a tutt’oggi permanente. L’11 aprile del 2002, un golpe preparato a Washington con un copione già dato in mano ai grandi media privati, sequestra Hugo Chavez e mette al suo posto Pedro Carmona Estanga, capo di Fedecamara (la Confindustria locale), appoggiato dalle gerarchie ecclesiastiche e dalle oligarchie. Il primo atto di Carmona è quello di abolire la costituzione e di sospendere tutte le garanzie. Ma, grazie al tam tam dei media comunitari (radio e tv indipendenti), il popolo si rende conto di quanto accade e riporta in sella Chavez. Si creano allora i Circoli bolivariani. Si dà impulso a una legge per ridurre il latifondo mediatico.
Durante la tragedia di Vargas, e a fronte degli altissimi livelli di povertà della popolazione, Chavez inizia ad applicare un cambiamento nella concezione delle Forze Armate: per impiegarle, cioè, non più soltanto nelle funzioni di difesa, ma in quelle di supporto alla popolazione (alimenti, salute e recupero degli spazi pubblici). Dopo il golpe del 2002, l’unione civico-militare si consolida come dottrina, e trova fondamento costituzionale nel principio di corresponsabilità nella Difesa integrale della Patria. Nel Capitolo II sui Principi di sicurezza nazionale, l’articolo 326 della Costituzione stabilisce che il principio di corresponsabilità tra Stato e società civile deve realizzare “indipendenza, democrazia, uguaglianza, pace, libertà e giustizia” negli ambiti “economico, sociale, politico, culturale, geografico, ambientale e militare”.
L’alleanza civico-militare ha il suo correlato costituzionale nella Milizia bolivariana. Viene creata il 2 aprile del 2005. Ha funzioni complementari a quelle delle Forze armate, rivolte al popolo per la realizzazione della “difesa integrale”. Un modello che sta ispirando la nuova dottrina di pace nelle accademie militari dei paesi dell’Alba, e non solo.
Ma il tema che più accomuna le tre costituzioni è quello dei diritti: diritti individuali o collettivi, come nello “Stato plurinazionale di Bolivia” in cui anche la natura è soggetto di diritto. Anche per questo, la Carta magna ecuadoriana – che a sua volta divide i poteri dello Stato in 5 funzioni – è una delle più estese al mondo. Un laboratorio di conquiste e sfide che proietta il suo esempio oltre i confini del continente con un’identica consegna: “invertire l’ordine della giustizia eliminando i privilegi”.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 26 di Novembre-Dicembre 2016 “Voglio cambiare davvero, quindi voto NO!“